RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Scrittori nei Castelli Romani

Pasolini, Roma e il gioco del “pallone”

Nel 34° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, scrittore e regista che amò i Castelli Romani almeno quanto la stessa Roma, avendo insegnato a Ciampino e frequentato Albano dove intendeva comprare un appezzamento di terreno per costruirvi una "casa per studio", il nostro giornale vuole commemorarlo con un articolo particolare, nuovo, di Marco Onofrio, scrittore e critico letterario, abitante a Marino, che racconta un Pasolini appassionato di calcio, ma anche di ciclismo. Conosceremo così il celeberrimo Autore sotto un aspetto per molti inedito. Pochi mesi prima di morire, era venuto a Genzano a una serata letteraria in suo onore tenuta dal nostro concittadino, critico letterario Franco Di Carlo, alla quale partecipò anche il poeta Mario Dell'Arco, genzanese, coautore con Pasolini del libro " Poesia dialettale del Novecento". (A.O.)


Pier Paolo Pasolini era un grande appassionato di calcio e, in genere, di sport (adorava anche la box e il ciclismo). Accanito tifoso del Bologna: sia perché squadra della sua città natale, sia perché costellazione simbolica e potenza mitica di un "ciclo" straordinario (negli anni Trenta era il Bologna che "tremare il mondo fa": quattro strepitosi scudetti nel decennio 1929-39 e giocatori memorabili come Schiavio, Reguzzoni, Biavati). Biavati passò alla storia del calcio come quello del "doppio passo" in dribbling sul marcatore avversario. Sarà l'arma segreta del Pasolini giocatore (mezz'ala sinistra, numero 10 o 11 di maglia), emulo consapevole e compiaciuto del suo idolo. Già, perché Pasolini non si limitava ad assistere: gli piaceva soprattutto giocare. Interminabili le sue partite bolognesi, ai campi di Caprara o nella squadra della facoltà di Lettere, di cui fu capitano. E poi a Casarsa, in Friuli, con la compagine locale. E a Roma, infine, dove si trasferisce con la madre, in seguito allo scandalo che lo coinvolge.
Gli piace il calcio anche per la muscolosa sensualità dei corpi maschili. Ogni partita è una storia nuova, un microcosmo, un mondo a sé. C'è l'incontro-scontro dei corpi sudati. Il mescolarsi degli odori. Lo schiamazzo dei litigi. Il tambureggiante brusio dei bulloncini delle scarpe sul terreno. Il suono del pallone che rotola e rimbalza, con traiettorie imprevedibili e sempre diverse. Ma anche la solenne ritualità dei gesti che si ripetono. Per Pasolini tutto questo ha fascino erotico. Coltivare la passione per il calcio è un modo di godere allo sguardo la maschia bellezza degli altri giocatori, ma anche di conservare integra la propria. E infatti, anche per mantenersi in forma e figurare in campo tra i migliori (cosa a cui teneva con orgoglio supremo), Pasolini mangia poco, non fuma, non beve alcolici. Praticare il calcio gli serve per restare adolescente. È dotato di fasce muscolari robuste e flessuose, che gli consentono di rivelarsi potente, instancabile, e soprattutto velocissimo. Ricorda Ninetto Davoli: «Lo chiamavamo Stukas per quel suo modo di scattare sulla fascia e quella corsa bruciante. Nelle partite che giocavamo, lui era quasi sempre il più in forma. Aveva un fisico perfetto, nerboruto, mai un chilo di troppo».
L'arrivo a Roma trasforma in senso urbano, popolare, proletario, l'universo del calcio da vedere e praticare. Anzi: del "pallone", per estensione metonimica. La partita è improvvisata e confusa, e spesso si gioca in mezzo al fango, o sui prati secchi, o sugli spiazzi di terra battuta delimitati da mucchi di rifiuti. Lo scenario è quello delle borgate. O dei palazzi dozzinali delle nuove periferie. Dove si agitano i "ragazzi di vita", in cerca di esperienze e di impossibile emancipazione. Il pallone non manca mai nella Roma di Pasolini. I romanzi, certo, ma anche le poesie:

Al Trullo il sole, come dieci anni fa.
«Fermete, a Pa', dà du' carci co' nnoi!»
(...)
La partitella, nel cuore della borgata,
tra i lotti che oltre al sole, e a qualche figura
di sorella, di madre, coi golf dei giorni di lavoro,
non hanno nulla da offrire alla nuova primavera ...

«Fermete, a Pa', dà du' carci co' nnoi!» E Pasolini si lascia coinvolgere senza pensarci; quando non è lui stesso a chiederlo ai ragazzi. Anche se è vestito in giacca e cravatta: come spinto da un impulso irrefrenabile. Ancora Ninetto Davoli: «Ogni volta che sentivamo il rumore di un pallone ci fermavamo e cominciavamo a giocare». E poi c'è lo Stadio Olimpico, con la veduta di Monte Mario che gli ricorda la bellezza poetica di San Luca dagli spalti del Comunale di Bologna: «E io so come sia terso in questo ottobre il colle di San Luca sopra il mare di teste che copre il cerchio dello stadio». Ama lo spettacolo sportivo, che secondo lui è evasione, sì, ma anche "rito", anche "religione", perché celebra «l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo». Ama lo spettacolo popolare della gente che si appassiona e si dispera allo stadio. «Non c'è nulla che assomigli a uno stadio pieno di gente, a quella massa viva, ruggente, e infine, struggente, di spettatori». Della Roma calcistica preferisce la sponda giallorossa a quella biancoceleste: la Roma è più vicina al mondo proletario che gli interessa conoscere e descrivere; la Lazio più borghese, destrorsa, "pariolina" (era ed è tuttora un diffuso luogo comune). Ricorda Aldo Onorati «Quando veniva a trovarmi ai Castelli Romani, si finiva per parlare anche di calcio. Io tenevo alla Lazio: squadra che lui, tifosissimo del Bologna e simpatizzante romanista, non vedeva proprio di buon occhio». Scarsa simpatia proverà, in effetti, per il sorprendente scudetto biancoceleste del 1974 e per uno dei principali artefici di quell'impresa, il bomber Giorgio Chinaglia, definito da Pasolini una «mezza punta goffa e delirante».
Le borgate sono feudi romanisti. Di fede giallorossa sono anche i "ragazzi di vita" che frequenta. E i compagni dell'avventura cinematografica, come Ninetto Davoli e i fratelli Citti. Insieme a Sergio Citti, il 27 ottobre 1957, va a vedere un Roma-Lazio 3-0, gol di Lojodice, Da Costa e Ghiggia. Deve scriverne su "L'Unità" del giorno dopo. L'articolo, annunciato dal quotidiano, frutta la telefonata di un tifoso romanista, tale "Mozzone" da Torpignattara, che avverte Pasolini: «A Pa', nun t'azzardà a dì male de la Roma, eh?» Pasolini sta piuttosto sulle sue e dà al pezzo un taglio sociologico, parlando del tifoso "romano" in genere, che nella propria squadra esalta la propria "dritteria". Non c'è grande differenza, in fondo, tra romanisti e laziali: un'identica "faccia malandrina" si lascia ammirare sotto i cappellucci di carta giallorossa o biancoceleste. Scrive Pasolini:

Ciò che fa più soffrire e gioire il romano alla sconfitta e alla vittoria della sua squadra è l'idea dei discorsi che dovrà fare al bar o dal barbiere. Certo! Un "dritto" può forse perdere? E se vince, può forse non fare dell'ironia - magnanima - sui vinti?

Ma Roma segna anche il crescendo borghese del Pasolini-giocatore. Conserva sempre l'entusiasmo del liceale, quando «giocare al pallone era la cosa più bella del mondo»; ma si dà meno alle partitelle improvvisate negli spiazzi scalcinati di periferia, poiché ha cominciato ad assecondare con più metodo, regolarità e proprietà di mezzi il suo sogno di una vita: essere un calciatore. Adesso ci sono campi regolamentari in erba, ci sono porte con le reti, ci sono tribune. E spesso stadi di serie A, come a Napoli e a Verona, quando gioca contro le "vecchie glorie" delle squadre vere. Pasolini fa parte della nazionale dello spettacolo, animata dall'agente cinematografico Giacomo Ciarlantini. Gioca insieme a Gianni Morandi, Enrico Montesano, Raf Vallone, Philippe Leroy, Little Tony, Giorgio Bracardi, Ninetto Davoli, tra gli altri. L'esordio è a Palestrina. Poi, visto che la cosa funziona e lo scopo è benefico, partite in tutta Italia.
Pasolini si impegna allo spasimo. Tenuta impeccabile, pose da giocatore navigato, sguardo sempre concentrato sull'azione. A differenza di altri (Davoli, ad esempio) prende la partita terribilmente sul serio. Smania, corre, si dà da fare. Per lui il calcio è febbre contagiosa, è bagno di divertimento, è rifugio e conforto entusiasmante. Una partita è «come un mese di vacanze». Se poi addirittura segna, allora è apoteosi e gioia irrefrenabile, sono sorrisi e occhi da bambino. Ma la fine dell'incontro spegne il momento magico: Pasolini torna musone e distaccato. Ricorda Franco Citti: «Finita la tensione del gioco, rientrava nella sua bolla di vetro, nei suoi silenzi, nei pensieri e nei problemi che non raccontava mai a nessuno».
Il 4 novembre 1975 avrebbe dovuto giocare alla Favorita di Palermo. Una partita fuori tempo massimo, purtroppo. Lo "spiazzo scalcinato" dell'Idroscalo di Ostia: questa volta non per dare quattro calci, ma per riceverne, a decine, insieme a colpi di ogni tipo. Fino al massacro.
Come un pallone accoltellato che non avrebbe rimbalzato più.

 



Per saperne di più:

- V. Piccioni, Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta, Arezzo, Limina, 1996.
- D. Bellezza, Morte di Pasolini, Milano, Mondadori, 1981
- M. L. Gargiulo, L'Antiburattinaio. Pasolini e le ragioni del dissenso, Roma, EdiLet, 2008.
- Album Pasolini, con testi inediti e fotografie, Milano, Oscar Mondadori, 2005.