Salire quassù, fino alla zona del Maschio di Lariano che condivide con i vicini monte Artemisio, monte Peschio, monte Algido la fortuna di ergersi in un posto unico per la bellezza dei luoghi e la vastità del panorama, ristora ed appaga i sensi.
Siamo sopra la Caldera del "Grande Vulcano Laziale" che forma un complesso enorme per estensione (circa 60 km alla base del cono) e le cui falde toccano quasi il mare dalla parte Tirrenica. La storia di questo Vulcano ha 700 mila anni e fino a circa 30 mila anni fa è un susseguirsi di esplosioni, accumuli di materiali, colate laviche, squarci violenti nei fianchi della montagna.
Nella fase finale dell'attività del Vulcano le esplosioni furono numerose e violente creando più o meno l'attuale conformazione che vede al centro Monte Cavo con i campi di Annibale e il maschio delle Faete circondati per tre quarti da una corona di rilievi, poi più in basso, verso ponente, i crateri eccentrici dei laghi di Nemi e Albano, la valle di Ariccia e la valle Marciana.
Dalla sommità del Maschio di Lariano quindi si legge il territorio: si distingue nettamente il recinto esterno del Vulcano Laziale, costituito dai Monti Tuscolani ed Artemisio che delimitano la vasta caldera del diametro di oltre 10 km, all'interno della quale si è sviluppato posteriormente il recinto interno che comprende i Monti delle Faete. Si riconoscono, inoltre, tre bacini idrografici: quello del Tevere (davanti), e guardando verso Roma si intravede sulla destra il bacino del Liri-Garigliano e sulla sinistra quello del Mar Tirreno, i tre bacini si incontrano al passo dell' Algido, che mette in comunicazione la valle Latina con Artena.
Un posto magico, unico nella sua conformazione, punto di arrivo ed istruttiva meta finale delle passeggiate di escursionisti di diverso genere: cicloamatori, cultori di storia ed archeologia, naturalisti, geologi, ambientalisti che salgono con innata curiosità per osservare, scoprire, scrutare dall' alto le trasformazioni del territorio. Da lì si nota, anno dopo anno, e dal vero, il crescere dell' espansione dell' edilizia spontanea del Vivaro e dei Piani di Caiano, il tutto con un livello di dettaglio forse migliore di quello che si può realizzare, con metodo scientifico, attraverso l' esame dalle immagini satellitari: insomma un punto di osservazione strategico noto fin dall' antichità .
In questa parte dei monti Albani che, come si diceva, è abbastanza vicina alla costa tirrenica, salendo sul Maschio di Lariano, che tocca 891 metri di altezza, si ha l'impressione di trovarsi in ambiente decisamente montano. Infatti, gli esperti indicano la presenza di specie vegetali come ad esempio il faggio, che si incontrano in aree d' Italia e d' Europa caratterizzate da climi più rigidi e che qui si sono invece bene adattate al microclima locale. Certo oggi prevale il castagno, ma un tempo in tutta l'area del Vulcano Laziale, " a giudicare dai toponimi il Faggio doveva essere piuttosto esteso ed abbondante: Colle dei Faggi, Piano della Faveta, Monti delle Faete, Maschio delle Faete, Macchie della Fajola nel recinto interno, Colle del Favo, Quarto del Favo, Macchia del Favo,..." (AA.VV., Bassani P., 1980, Un Parco naturale Regionale nei Castelli Romani, Coopsit).
I meno esperti invece, se restano in ascolto, percepiscono l'atmosfera del luogo arricchita dai profumi del bosco e con un po' di immaginazione, una volta arrivati al piano dei ruderi della fortificazione, nella quiete, possono sentire vecchi racconti dai muri e dai sassi che, come pagine di pietra disperse, restano a documentare in frammenti storie passate.
Sono le storie dei soldati e di una fortezza giudicata inespugnabile nel secolo XV , infatti " ..ella rimaneva sul monte fabbricata di durissime pietre riquadrate, e tutto masso al di dentro. Per la sua eminenza dominava dal settentrione la provincia di Campagnia e dall'ostro quella di Marittima: era provvista di due conserve d'acqua assai copiose lavorate con grande artificio e non essendo a quei tempi in uso l'artiglieria, era malagevole impresa l'espugnazione"( Bauco T., 1851, Storia della città di Velletri).
La forza di queste strutture dipende dalla tecnica di costruzione: le parti di muratura che sono oggi visibili si compongono di conci di pietra lavica squadrati e montati per file parallele alternando per quanto possibile filari disposti di testa con altri disposti di taglio, una tecnica derivata dall'opera quadrata dei Romani. In diversi punti si possono notare dettagli di incastro delle pietre, tipiche dell'opera poligonale, anche se eseguiti con blocchi squadrati che sono stati tagliati ad "L" rovesciata. Questa accortezza permette di interrompere i giunti lineari di malta e definire un incastro con il filare sottostante dando maggiore resistenza alle murature di elevazione.
Ancora le storie narrano di briganti che si muovevano tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo nelle zone selvagge comprese tra il Maschio di Lariano, il Monte Artemisio e il monte Algido con terribili agguati ai viandanti malmenati, depredati e spesso uccisi ad opera della Banda della Fajola con a capo il famigerato e temuto Gasperone. Una volta fermati essi passano nelle mani del boia mastro Titta, al secolo Giovan Battista Bugatti, che decapita e squarta facendo assistere alle raccapriccianti esecuzioni i prossimi da giustiziare. Anche qui, come a Nemi, proprio sotto la macchia della Fajola presidiata dai soldati del Casale dei Corsi si favoleggia di ingenti tesori nascosti nei cunicoli sotterranei e di forsennati e, a quanto risulta, inutili tentativi per riscoprirli a danno invece dei resti archeologici molto diffusi in zona.
Ci sono poi le storie di altri soldati che passano, setacciano, ricercano, o di cittadini che si nascondono, di voci straniere, prima francesi, poi tedesche, di rumori di armi da fuoco, di spari e raffiche di mitra; il suono sordo di corpi e muri che cadono.
Oggi il silenzio ricopre quelle storie e l'ombra rinfresca la salita. Il panorama è imponente e mozza il fiato mentre le nuove periferie dei paesi intorno si arrampicano sui pendii e riempiono le valli.