E già si scorgevano lontano, tra i monti, scintillare al sole le acque azzurrine del bellissimo “specchio di Diana”(1). Freddo, profondo, cangiante di colore a tutte le ore del giorno, il lago di Nemi rifletteva, nella sua insenatura settentrionale, il grande tempio consacrato a Diana Aricina, i cui marmi candidissimi biancheggiavano tra i folti querceti lungo le pendici del monte.
Prima di cominciare la salita, a notevole distanza dai boschi, le due donne lasciarono il cocchio. Era vietato di penetrare, od anche soltanto di avvicinarsi con dei cavalli al bosco sacro, ove Ippolito, vittima della spietata matrigna, viveva sotto il nome di Virbio una seconda vita, una vita immortale. Esculapio lo aveva richiamato in vita per compiacere a Diana, che, commossa dalla fedeltà, della purezza incontaminata del giovane a lei devoto, piangeva tutte le sue lagrime sul bel corpo lacerato dagli infuriati cavalli.
- A che tanto dolore – egli aveva detto – o divina? La mia arte è così potente che saprà richiamare in vita il tuo fedele. Ma rapiscilo tosto ben lungi da qui, e nascondilo nel più profondo recesso d’un bosco, perché l’opera mia può muovere ad ira la gran Venere dall’auree chiome, cui Ippolito, vivendo, sdegnò di rendere i dovuti onori.
Disse e la dea, a meglio celarlo, volle mutare anche il suo nome, che ricordava i fumanti corsieri da cui il giovane ebbe la morte. Sotto il nome di Virbio essa lo nascose fra i querceti del monte, presso il lago di Nemi, nel sacro bosco ove sgorga la fonte perenne della ninfa sposa di Numa.
A passi lievi, parlando sommessamente come già avessero marcato la soglia del tempio, le due donne s’avvicinarono alla sacra foresta. Ma prima di penetrare fra le fredde ombre del bosco, si fermarono a contemplare il lago che, increspato appena da un venticello leggero, rideva ai loro piedi, incantevole.
- Dicono – notò Filotide – che sporgendosi a guardare nelle acque trasparenti del lago, durante le giornate serene, ancor si scorgono i palazzi di marmo di Silvio Amulio, il potentissimo re Albano che Giove percosse della sua celeste ira, perché aveva fatto costruire delle macchine che lanciavano il fulmine di lontano, imitando il rombare del tuono (1). Ma forse è soltanto l’immagine riflessa del tempio che si contempla, affacciandosi alle acque chiare…
Tratto da: Luisa Banal, “Lazio divino : romanzo storico-leggendario”, G.B. Paravia, 1930.
(1) Così i Romani chiamavano il lago di Nemi.
(2) Strana leggenda, ripetuta da molti antichi scrittori, che farebbe quasi credere che in antichissimi tempi si fosse conosciuto il segreto delle armi da fuoco.