Vivavoce - Rivista d'area dei Castelli Romani

RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Pepite

Al principio c’è sempre una frase

Intervista a Laura Angeloni

Dare il resto e poi sorridere è la storia di una donna che parte per Londra per iniziare una nuova vita. Per rinascere bisogna trasferirsi altrove?

Si può rinascere in tanti modi, se c'è la spinta dentro per farlo. Arianna nel giro di pochi giorni perde il lavoro, il suo rapporto d'amore, il sogno di diventare scrittrice. La sua scelta di partire, e di partire per quella magnifica città che è Londra, non è casuale. Hai presente quei punti di snodo che ci sono nella vita di ognuno, quando sei davanti a un bivio e ti tocca scegliere? Ecco, Arianna aveva scelto undici anni prima, e poi aveva camminato e camminato, undici anni sono un bel pezzo di strada. E a un certo punto l'assurda scoperta, era un vicolo cieco. E invece di sedersi sconsolata davanti allo sbarramento, Arianna torna indietro fino a quello che riconosce il suo bivio. E riparte da lì.

Perché Londra?

Questo è sicuramente un elemento autobiografico, Londra ha rappresentato per me una fase della vita molto importante. Il mio primo lavoro, l'ebbrezza dell'indipendenza, tutto quell'immaginario sulla città che ti sei costruita negli anni di studio della lingua inglese che all'improvviso diventa realtà, Trafalgar Square, Piccadilly Circus, le luci, gli autobus rossi... Non dimenticherò mai quei mesi in cui insieme alle mie amiche davo il resto e sorridevo in un famoso fast food, né quella città dove tutto ti sembra possibile. Penso che in tanti condividano questo mito giovanile di Londra.

Dunque c'è qualcosa di autobiografico, nel libro?

C'è sempre qualcosa di autobiografico in quello che si scrive, perché una storia, anche se inventata, nasce sempre dal profondo. Di autobiografico ci sono certe atmosfere interiori, l'indole malinconica, il senso dell'amicizia, l'amore per la scrittura e per i libri. Poi quando un personaggio nasce se ne va per conto suo, un po' come i figli, tu li metti al mondo, di certo si portano dentro qualcosa di tuo, ma poi seguono la loro strada, vanno da sé.

Ecco, raccontaci come nasce un romanzo, è già costruito quando inizi a scrivere, o prende forma man mano

Non è sempre uguale, penso che ogni autore abbia il suo modo di lavorare, e magari anche per uno stesso autore varia da libro a libro. Io non costruisco mai a tavolino prima di iniziare a scrivere, ma in fase di scrittura mi capita di dovermi fermare per chiedermi dove sto andando, per mettere ordine, guardare un po' oltre.

E la scintilla? Esiste davvero la scintilla dell'ispirazione?

Certo che esiste! Ma spesso la immaginiamo in modo molto poetico e affascinante, come un fuoco che comincia e ti rapisce fino alla conclusione, e invece non è così. Come tutte le cose belle e importanti anche dell'ispirazione bisogna avere grande cura, sedersi accanto al fuoco, aggiungere legna, soffiarci sopra quando sta per spegnersi. Una poesia può vivere solo di ispirazione, anche un racconto, forse, ma per un romanzo non basta. Ci sono giorni in cui non puoi fare a meno di scrivere perché senti le parole premere per venir fuori, altri in cui ti sembra di non aver niente da dire, ma devi comunque sederti davanti allo schermo bianco perché la tua storia richiede e merita uno sforzo.

Per esempio, Dare il resto e poi sorridere com'è nato?

Stavo cercando di pubblicare il mio primo romanzo, e allo stesso tempo di convincere alcuni editori a comprare i diritti degli autori cechi che volevo tradurre - è la mia dolce maledizione questa - e tutti cercavano storie forti, era il periodo di 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire, il sesso andava di gran moda. E così c'è stato questo momento di rabbia ed è nato subito dalla bocca di Arianna, un flusso inarrestabile durato varie pagine. Poi è rimasto fermo per molto e un giorno una mia carissima amica cercava un monologo da portare al suo corso di teatro e ho tirato fuori il mio file dimenticato. Mi è piaciuto molto e anche a lei, che mi ha incoraggiato a continuare, non ci ho messo molto per farmi convincere perché le parole avevano già scatenato altre parole.

Dare il resto e poi sorridere infatti è un lungo monologo, è un libro molto diverso da Il viaggio di Anna, il tuo primo libro. Come mai due stili così diversi?

Lo stile nasce sempre insieme alla storia, almeno per me è così. A principio c'è sempre una frase, tagliente, ritmata, perfetta, che a un certo punto mi trovo in testa come se fosse già stampata. Poi tutto prende il via da lì, è quel primo periodare inatteso e istintivo a decidere tutto.

Tu traduci dal ceco. Come mai la scelta di questa lingua così insolita e difficile?

Mi sono iscritta a lingue e ho scelto il russo, e il secondo anno è venuto il momento di scegliere una seconda lingua slava. Proprio quell'estate ero stata in Repubblica Ceca (allora Cecoslovacchia) per un campo di lavoro di volontariato e avevo visitato Praga rimanendone affascinata, così ho scelto il ceco. E pian piano mi sono appassionata a questa lingua, alla sua cultura e letteratura, così tanto che alla fine ho deciso di laurearmi in ceco.

E come sei arrivata alla traduzione editoriale?

Fin dal principio ho sempre desiderato tradurre. Era un modo di unire le mie grandi passioni, le lingue e la scrittura. Non è stato facile arrivare ai primi incarichi, lunghi anni in cui i miei curriculum non avevano risposta, ma alla fine ce l'ho fatta.

Come?

Ho partecipato alla presentazione di un libro pubblicato da una piccola casa editrice appena nata e lì ho avuto occasione di conoscere l'editore. Lui mi ha parlato della sua intenzione di pubblicare opere in traduzione e io gli ho raccontato di un autore che mi sarebbe piaciuto tradurre. Siamo partiti così, con tanto entusiasmo e poche finanze, una meravigliosa avventura che mi ha permesso di portare in Italia il grande scrittore ceco Jachym Topol. Da lì sono poi arrivati incarichi anche da altre case editrici.

Quanto si compenetra la scrittura col tuo lavoro di traduttrice?

Senza dubbio per tradurre è essenziale avere una forte sensibilità linguistica, non basta conoscere le lingue. Saper riconoscere e riprodurre un ritmo, cogliere una particolare sfumatura lessicale e trovare un corrispondente nella propria lingua, sono aspetti fondamentali della traduzione letteraria. A parte questo però quando traduco un libro la scrittrice che è in me deve scomparire, il traduttore deve essere invisibile e aderire il più possibile allo stile originale. Ci sono però particolari momenti in cui è importante metterci qualcosa di mio, quando trovo nel testo dei giochi di parole o dei neologismi per esempio, lì anche saper inventare nuove soluzioni diventa importante. D'altra parte ho la sensazione che l'attività della traduzione giovi molto alla scrittura. La continua ricerca lessicale, semantica e ritmica, che la traduzione richiede è un esercizio continuo, importantissimo.

È difficile oggi farsi strada nel mondo dell'editoria?

Moltissimo. Forse è stato sempre così, non lo so, ma sospetto che la crisi che l'editoria sta vivendo abbia peggiorato molto le possibilità di chi è ancora agli inizi. I grandi editori non considerano nessuno che non abbia già un nome, dopotutto anche i libri sono prodotti di mercato. La piccola editoria è spesso più propensa a rischiare, ma ovviamente non ha molti mezzi per distribuire e promuovere i libri che pubblica, per cui è difficile farsi conoscere. L'unica forza promozionale che hanno i libri dei "piccoli" autori risiede nel passaparola, che può davvero fare la fortuna di un'opera. Per questo conto molto sulla forza dei miei lettori, perché è solo grazie a loro che il mio libro può sopravvivere.

 


Laura Angeloni è nata nel 1970 a Firenze, ma vive a Genzano dall'età di sei anni. Traduttrice di alcuni tra i più importanti autori cechi, ha da poco pubblicato il suo secondo romanzo da autrice, Dare il resto e poi sorridere, edito da Echos Edizioni. L'abbiamo incontrata per parlare del suo libro, di scrittura e traduzione.

 

Per la rubrica Pepite - Numero 128 febbraio 2016