RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Itinerari letterari

C’era una volta a Roma Trilussa

Una rubrica volta a rivisitare il nostro territorio attraverso gli scrittori che più lo hanno amato.

…Non voglio fare l’elogio del vino laziale, di quel cannellino generoso che alla fine del secolo scorso affatturava, un viatico sacro: qui ce semo e qui ce restamo infino a che la morte non ci separi. Eppure un epitaffio va fatto all’enigma del sapore quando si discorre di vino.
Ah le ottobrate nelle vigne attorno a Roma, settimane della passione di Bacco infino a San Martino quando si assaggiava il novello dalle tette alcoliche dell’otre femmina.
Vino dei Castelli, di corpo, non fumoso e agreste: nepente d’oro, moscatello, trebbiano, malvasia, vini asciutti e sulla vena, vino di Zagarolo dal pizzicore di zolfo e vino d’Albano, rinomanza cristallina che frizza di bolle nel bicchiere: un piacere taciturno, un’eminenza fra il nettare di Frascati e Genzano, di Marino e Lanuvio. Un eloquio che accende persino l’uomo chiuso e solitario, fra il paglierino d’Ariccia e la batosta sanguigna d’Olevano. Vino, tutto era vino nei Castelli Romani, la linfa e la parentela, la fantasia e la voja, l’amore, la morte e la fortuna. Vino latino, lacrima delle Muse e piscio d’angioli, medicina che nutre il cervello, vino che l’antichi romani bevevano nei banchetti: il primo bicchiere in onore della Salute, il secondo del Piacere e il terzo del Sonno.
Regole auree che i papi hanno raccolto e tramandato, gusti di vino autenticati da cattolico sigillo: dolce, soave, nobile, molle e sfuggente, aspero, acre, acuto, pingue, ardente, indomito e generoso. Mai bere a digiuno, né dopo aver mangiato troppo, meglio quando c’è tramontana perché lo scirocco stranisce. Vino che va bevuto in compagnia, insieme è allegria: cominciava la grande bevuta…

Tratto da: Luca Desiato, “C’era una volta a Roma Trilussa”, Milano, Mondadori, 2004, p. 43 e ss.

Per la rubrica Itinerari letterari - Numero 40 marzo 2005