RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Archeologia

Il Barco Borghese

uno dei complessi monumentali più straordinari dei Castelli Romani

Lungo la strada che da Frascati conduce a Monte Porzio Catone, al termine del grande muraglione di età rinascimentale antistante l’ingresso principale di Villa Mondragone, si apre una stradina tra gli ulivi che conduce ad uno dei complessi monumentali più straordinari dei Castelli Romani.
Si tratta del Barco Borghese, vasta spianata di forma quadrangolare (m. 219x245 ca.) che si affaccia scenograficamente sulla campagna romana. Il termine Barco, storpiatura per Parco, stava ad indicare, in una villa rinascimentale, il recinto in cui si conservava la selvaggina per la caccia.
Nel 1573 il ricco e potente Cardinale Marco Sittico Altemps, inaugurando la stagione delle ville rinascimentali per la villeggiatura, acquistò l’area in cui già sorgeva un piccolo casale (la villa “Angelina”) appartenuto ai Farnese, affidando all’architetto Gregorio Barozzi detto il Vignola la trasformazione dell’edificio in una maestosa residenza (Villa Tuscolana). Antistante l’edificio si apriva una grande area rettangolare occupata dai resti di un’antica villa romana, in parte utilizzati come cava di materiali per la costruzione di alcuni casali agricoli.
La predilezione di papa Gregorio XIII (al secolo Ugo Boncompagni) per questi ameni luoghi indusse il Cardinale Altemps a costruire una seconda dimora più magnificente, degna dell’illustre ospite, il cui progetto fu affidato a Martino Longhi il Vecchio: furono così avviati i lavori per la costruzione di quella che sarà Villa Mondragone, il cui nome ricorda il drago dello stemma Boncompagni.
Nel 1613 il Cardinale Scipione Borghese, nipote di Paolo V, acquistò tutta la proprietà degli Altemps. Villa Tuscolana-Vecchia, Villa Mondragone e i casali agricoli andarono a costituire, assieme a Villa Taverna, il complesso del Burghesianum. Sempre ai Borghese è da attribuire la sistemazione a giardino all’italiana del Barco nel cui centro fu realizzata una monumentale fontana in tufo.
Al di sotto di questo giardino rimasero, occultati per secoli, i resti di quella domus succitata, lussuosa residenza extraurbana di un personaggio a tutt’oggi anonimo, ma sicuramente appartenente alla ricca aristocrazia romana dell’età tardo-repubblicana. La villa si elevava su di una piattaforma in parte naturale e in parte realizzata su sostruzioni in opera cementizia perfettamente conservate. Le tecniche costruttive permettono di datare il complesso intorno alla metà del I secolo a. C.
L’enorme basamento, che occupa 16.000 mq, è costituito da una serie di ambienti (se ne contano circa 180) in calcestruzzo e copertura a botte, organizzati intorno a due monumentali gallerie parallele (lunghe 137,70 metri e alte 8) con orientamento nord-sud. Tutte le strutture murarie sono rivestite in opera reticolata (calcestruzzo e blocchetti quadrangolari di selce), la cui perizia di esecuzione appare straordinaria tanto più che questi ambienti erano concamerazioni chiuse, non utilizzate. Cedimenti strutturali verificatisi probabilmente un secolo dopo la costruzione indussero i possessori della villa ad intervenire con la creazione di setti murari trasversali in opera mista ( fasce alternate di reticolato e laterizio), alcuni dei quali presentano singolari aperture a cappuccina. Per ovviare ad un secondo crollo si ridusse l’ampiezza delle volte rinforzando anche alcune pareti. Nel corso del I secolo d. C. più ambienti furono riutilizzati come cisterne e le pareti foderate con intonaco idraulico; un altro vano fu adibito a deposito di marmi o di polvere di marmo (ratio marmoraria), come attestano le numerose iscrizioni dipinte sull’intonaco.
Di grande impatto scenografico rimane tuttora ciò che resta della facciata monumentale, la cui articolazione messa in evidenza dalle indagini archeologiche appare composta da ambienti rettangolari paralleli, delimitati da muri in opera reticolata e scanditi da semicolonne in muratura con capitelli dorici di pietra sperone. In una seconda fase costruttiva l’ingresso crollato fu sostituito da una rampa di accesso. Il pavimento, in ampi tratti conservato, fu realizzato in opus spicatum (mattoni a spina di pesce).
Successivamente, divenuto troppo dispendioso da mantenere, il Burghesianum decadde e nella seconda metà del XIX secolo divenne proprietà dei Gesuiti, che affittarono il complesso sostruttivo trasformato ben presto in fungaia. Tale riconversione causò il danneggiamento di alcuni ambienti per l’apertura di varchi, ma al contempo il rivestimento delle pareti con il cellophan, destinato ad aumentare l’umidità necessaria alla coltura, permise al complesso così occultato di giungere integro sino a noi.
Qui nelle sostruzioni del Barco possiamo ammirare pienamente la perizia raggiunta dall’ingegneria edile romana, trovare un campionario eccezionale delle diverse tecniche costruttive e perderci, oggi, nel mondo affascinante di ieri, che ci ha generosamente lasciato in eredità l’utilizzo della volta e del cemento.
Per la rubrica Archeologia - Numero 62 maggio 2007
Maria Barbara Savo |
Per la rubrica Archeologia - Numero 62 maggio 2007