Il carciofo è un prodotto che compare recentemente sulle nostre tavole, ma ha origini antichissime; nella mitologia greca è l’incarnazione di Cynara, una ninfa cara a Zeus. Cynara era bellissima e Zeus se ne invaghì. Era bella, ma anche volubile e capricciosa e perciò il dio geloso la trasformò in ortaggio, verde e spinoso. Il colore ricorderebbe infatti gli occhi di Cynara e le sue spine le tante pene che il dio patì per la gelosia. Quest’ortaggio ha però un cuore dolce come quello della fanciulla che inizialmente lo aveva incantato.
Parlano del carciofo Teofrasto, poi Galeno, che lo raccomandava ai suoi pazienti come diuretico e rilassante, e ancora Apicio, che ci ha lasciato ben tre ricette. Columella lo considera caro a Bacco e Plinio il Vecchio ne presenta il suo utilizzo nella cucina romana. Pare che al tempo di Tolomeo Everegete, re dell’Egitto dal 246 al 221 a.C. , ai soldati fosse ordinato di mangiare carciofi, per ricavarne una dose maggiore di forza e coraggio. In seguito all’arrivo dei barbari in Italia se ne perse la coltivazione, reintrodotta sicuramente dagli spagnoli in Sicilia. Nell’iconografia della Chiesa i pittori presentano spesso il cardo e il carciofo con lo stesso significato: simbolo del peccato originale e della Passione di Cristo. Le sue foglie compaiono nell’arte gotica e nel Modern Style. Nel periodo Rinascimentale fa parte delle tavole fiorentine e veneziane. I cuochi al seguito di Caterina de’ Medici ebbero anche il merito di far conoscere ai francesi non solo i broccoli e le verze, ma anche i carciofi. Sappiamo che Caterina era ghiotta di carciofi e un cronista dell’epoca, Pierre de l’Estoile, riportava una singolare notizia nel suo “Journal” del 1576 “ La Regina madre mangiò tanto da scoppiare e si sentì male come mai le era accaduto prima. Si diceva che ciò dipendesse dall’ aver mangiato troppi cuori di carciofo, creste e rognoni di gallo di cui era molto ghiotta”. Nello stesso periodo questo vegetale risultò essere per le virtù stimolanti il più caro a Venere, pertanto non mancano le preparazioni afrodisiache. Sicuramente è un ottimo alimento dal punto di vista gastronomico e nutrizionale, privo di grassi e ricco di calcio, potassio e fibre; contiene anche la cinarina, uno stimolante della secrezione biliare, infatti dall’infusione del carciofo si ricavò un piacevole aperitivo, il mitico “Cynar”, il cui slogan pubblicitario recitava “contro il logorio della vita moderna”! Rimanendo tra gli aneddoti ricordiamo che Carlo Emanuele I di Savoia, nell’unificazione delle terre piemontesi e liguri, incontrava notevoli difficoltà e si consolò affermando che l’Italia era come un carciofo, bisognava mangiarne una foglia per volta. Altri dicono che la stessa affermazione era di Cavour, anche lui grosso estimatore del nostro prodotto.
Il nome carciofo, “al kharshuf”, è di origine araba : si tratta infatti di un prodotto mediterraneo, tipico delle grandi isole e del sud dell’Italia dal XV secolo. Le zone rinomate per la produzione sono la Pianura Pontina e il territorio di Chioggia, poi anche la Sicilia e la Sardegna, ma in Francia giungerà solo nel secolo successivo. Sezionando il prodotto notiamo che la parte edibile è costituita dalle squame più interne, dal fondo e dal gambo. Le specie più consumate sono due: quella con le spine e quella definita inerme. Il carciofo romanesco, detto anche mammola, appartiene alla seconda categoria, e sul territorio gli vengono dedicate regolarmente delle sagre da quella di Velletri, a quella di Ladispoli, di Sezze e di Campagnano.
Entrando nel territorio delle ricette, dobbiamo dire che la tradizione rimane il punto di forza: nel territorio romano appunto si preparano “carciofi alla giudia” e “alla romana”, ma, limitatamente al territorio veliterno, il carciofo viene preparato alla “matticella”. Se andiamo a vedere gli ingredienti per tradizione troveremo l’olio, il sale, l’aglio e la mentuccia. Questa semplice erbetta è l’unica, che in un certo senso riesce a domarlo, tanto che nelle nostre zone la mentuccia rimanda sempre al carciofo e il carciofo alla mentuccia. La scelta del tegame è un altro annoso problema, evitiamo recipienti metallici e ritorniamo ai vecchi recipienti di coccio! Nella pulitura, fatta con abilità, va subito massaggiato con il succo di limone per evitare che sprigioni quell’ antipatico ossido di colore verde. Mondati e tagliati a pezzetti possono finire in padella per preparare il condimento di spaghetti o mantecati in un risotto, oppure in una non meno nobile e succulenta frittatona.
Arriviamo però alla nota dolente, l’abbinamento delle preparazioni a base di carciofo con il vino. Tra una pietanza e un vino, perché l’abbinamento sia corretto, deve avvenire una sorta di matrimonio d’amore: il vino deve smussare le asperità, le eccedenze sensoriali della pietanza per giungere ad un equilibrio. Il carciofo, tra i vari minerali che contiene, è ricco di ferro, pertanto all’assaggio permangono sul palato sensazioni amarognole. Servito crudo rende difficile l’accostamento ad un vino in quanto esalta le parti dure del vino stesso : acidi e sali minerali nei vini bianchi e per i rossi anche i tannini. Quindi sarebbe più opportuno bere un bianco, proprio perché ha meno sostanze dure. La cottura indubbiamente fa perdere parte della sensazione amara, attraverso l’intervento di oli, paste e farine e allora accostiamo un bianco con una tendenza morbida. Tornando alla tradizione veliterna ricordiamo che dopo aver collocato il carciofo su una bella fetta di pane, ogni foglia va mangiata con un sorso di vino di bassa acidità e discreta morbidezza. Se pensiamo invece ai carciofi in pastella, andiamo pure con uno spumante, che non sia però troppo secco per avvicinarci di più alla tendenza dolce caratteristica della preparazione. Che dire della coratella con i carciofi tipica della colazione di Pasqua? Teniamo presente che la componente è la corata con la sua tendenza dolce e il carciofo fa solo da completamento, per cui anche qui un vino con una leggerissima acidità.
Ma la ricetta particolarmente cara alla tradizione dei castelli romani ed è quella dei “carciofi alla matticella”.
Rispolveriamone la ricetta
Occorrono tre cose per questa preparazione: i carciofi romaneschi, uno spiazzo libero esposto a ponente, perché l’aria circoli liberamente a ravvivar la brace, che dovrà essere ottenuta bruciando le fascine dei sarmenti, dette in zona “matticelle”. I carciofi devono essere lavati, battuti, aperti e privati del gambo perché saranno cucinati dritti. Vanno riempiti con un trito di aglio fresco, mentuccia, sale e olio d’oliva e lasciati così per mezz’ora. Si prepara il fuoco per terra con le fascine di matticelle e quando la brace raggiunge una quindicina di centimetri il “fuochista” sistemerà i carciofi formando una grande ruota, spostandoli di tanto in tanto e allontanando dal centro quelli che vanno completando la cottura, il tutto evitando di sollevare improvvise fiammate. Questo tipo di cottura trasmette alla pietanza un aroma e un profumo particolari che si arricchiscono se si mangia il cuore del carciofo su una fetta di pane che raccoglie il prezioso condimento. La bontà è ancora più apprezzata se si ha la fortuna di assistere alla pittoresca cottura.