Il 12 marzo scorso i ragazzi del progetto “Musicorienta”, allievi del corso di Comunicazione e Promozione (Emanuele Sansonetti, Corinne Cinelli, Ilaria Pillai, Beatrice Kabutakapua, Simone Abbatini, Teresa Amendolara, Sara Cortecci, Enrico Tata), hanno intervistato Vittorio Nocenzi. Il musicista non ha certo bisogno di presentazioni. In questa sede lascia il suo ruolo di artista internazionale per darci un parere sulle varie problematiche e le possibili strade da intraprendere per valorizzare l’area dei Castelli Romani
Da dove nasce il suo interesse verso la realtà culturale dei Castelli?
Il motivo essenziale è che queste sono le mie terre natali e io intorno ai vent’anni, per svolgere la mia professione di musicista, me ne sono allontanato. Ciò che ritengo importante è non averne vissuto il condizionamento come realtà provinciale, mantenendo quindi un attaccamento “romantico” a queste terre. Quindi oggi sento il dovere di spendermi per le nuove generazioni dei luoghi dove sono nato, desidero essere attento a questa realtà e mi impegno in diversi progetti per cercare di rompere barriere ed offrire opportunità ai giovani. Io sono stato determinato e ho fatto quattordici anni di gavetta. Se ci sono riuscito io a suo tempo, oggi possono riuscirci tanti altri giovani.
Quale influenza-condizionamento subiscono i Castelli dalla vicinanza di una città come Roma?
Tutto è soffocato da quel gigante che è Roma, enorme suggestione che muove persone da tutto il mondo. Il paradosso è che questo colosso schiaccia col suo carisma tutto il territorio circostante, che vive di luce riflessa e teme di spingersi in una gara che non può e non deve esserci: sarebbe un confronto paragonabile a quello tra Davide e Golia. Però non va dimenticato che la qualità non ha bisogno di quantità. Oggi c’è una novità fondamentale, si chiama “glocal”: è un pensiero rivoluzionario, un’opportunità incredibile; significa credere nelle possibilità locali e renderle globali grazie alla tecnologia. Quindi questo complesso di inferiorità non ha più motivo di esistere.
Secondo lei quanto incidono le amministrazioni locali sul patrimonio artistico di un territorio e quali politiche potrebbero favorirne lo sviluppo?
Gli enti locali hanno pochi mezzi economici, di conseguenza gli amministratori, anche i più volenterosi, si trovano spesso le mani legate per mancanza di fondi. Sarebbe un grande passo avanti se nella cosa pubblica la cultura fosse vista come un aspetto di primo piano. Ne è un esempio il successo della politica di Veltroni, che fa dell’evento culturale un momento importante per la collettività, di portata internazionale: questo significa notorietà, incremento del turismo e attività. Bisogna promuovere la sinergia tra cultura, arte e risorse economiche. Non bisogna dimenticare che l’Italia non ha materie prime, ma ha come ricchezza principale i beni culturali, più di ogni altro paese al mondo. La mia idea di cultura mi ha sempre portato a vedere la necessità di fare di essa management, opportunità di lavoro, fatturato, con personale idoneo, come ad esempio fa la Francia.
Quali generi musicali associa ai Castelli Romani?
Il luogo comune fa subito pensare alla sagra dell’uva di Marino e alle fraschette di Frascati: pane, porchetta e vino! Forse nell’immaginario collettivo la gita fuori porta di memoria ottocentesca vive ancora e molti hanno riscoperto il fascino di questi luoghi. Ma ancor più varrebbe se fossimo più consapevoli dell’importanza della memoria: qualunque civiltà senza memoria è come una bussola senza ago, qualunque persona senza memoria è una marionetta in mano al primo burattinaio che passa. Se quindi penso alla musica dei Castelli mi viene in mente il più grande compositore di oratori che l’occidente abbia avuto: Giangiacomo Carissimi, nato a Marino da un oste. Penso a tanta musica della tradizione contadina: gli stornelli a braccio, i canti antichi dall’intonazione vocale particolarissima, che purtroppo abbiamo quasi perso del tutto: solo qualche anziano può regalarci dei documenti di musica che diventano un viaggio velocissimo nel passato, verso le radici originarie. Da sempre la musica ha accompagnato il lavoro dell’uomo. Ricordo da ragazzo i canti della vendemmia… Quelle donne sotto il sole, tra le foglie pentagrammate della vite, e il loro modo di cantare antico…
Il nostro obiettivo è quello di creare tanti partigiani del terzo millennio che cerchino da una parte di scoprire l’emozione della conoscenza, dall’altra di non rinunciare alle proprie opinioni, sviluppando un pensiero autonomo.
Ha preso in considerazione le ricchezze di questo territorio. Se dovesse invece andare a scavare tra le povertà?
Uno dei problemi principali è sicuramente l’occasionalità dei progetti: è invece necessaria una progettualità reiterata nel tempo perché un servizio possa crescere in qualità. La cultura è considerata un’eccezione, non uno strumento di crescita. Se si ha un mandato annuale non si può costruire niente di stabile, di fisso sul territorio e questo disorienta i possibili utenti.
Inoltre gli spazi restano inadeguati, mentre le esigenze delle nuove generazioni, le aspettative, la sensibilità, crescono. In altre regioni esistono le “case della cultura” che offrono una serie di servizi, come sale prova gratuite, laboratori, teatro...
Crede che le carenze strutturali abbiano influito sulla preparazione dei ragazzi?
Il ritardo culturale c’è nei Castelli Romani, però ci sono tante amministrazioni che in quest’ultimo decennio hanno fatto molte cose. Nello specifico posso garantirvi che ho avuto, negli scorsi anni, la possibilità di confrontare i giovani dei Castelli con quelli della capitale e non c’è una grande differenza, né nel comportamento, né nella curiosità, né nei talenti musicali.
Vede i Comuni dei Castelli Romani come singoli strumenti o come un'unica orchestra?
Questi strumenti sono stati finora quasi sempre scordati tra loro e hanno cercato di sopraffarsi suonando uno sull’altro. Mi auguro invece che ognuno diventi magnifico creando una grande orchestra.