Dogville è un palcoscenico teatrale sospeso in un vuoto nero. Vi sono tracciati con puntigliosità geometrica i perimetri bianchi che delimitano gli spazi della cittadina di Dogville: case, aiuole, strade, la vecchia miniera, la cuccia del cane.
L'assenza delle pareti, intuibili solo dai rumori e dai gesti di apertura e chiusura di porte e finestre invisibili, consente di carpire simultaneamente l'intimità "racchiusa " dai singoli perimetri; il regista dà vita ad uno spettacolo "osceno" poiché mostra allo spettatore-vouyeur, impietosamente, il dentro e il fuori. In Dogville lo spettatore è un dio onnisciente e i personaggi sono creature ignare.
Il film consente l'apertura a diverse chiavi di lettura, tutte valide ed ugualmente probabili. Una lettura in chiave psicoanalitica mi fa pensare che Dogville rappresenti un antro oscuro che genera paradossali stati di allucinazione, sensi di colpa, incubi libidinosi, allucinanti morbosità , un grande utero che partorisce un'umanità malata che via via degrada e deforma la realtà rendendola surreale ed onirica.
Oppure il film mi suggerisce in egual modo una chiave interpretativa più legata ad una visione reale della società americana afflitta dall'ipocrisia (vedi anche American Beauty) , dallo sfruttamento, dai malesseri sociali.
Indipendentemente dall'ottica con cui viene considerato, è comunque un prodotto sperimentale e innovativo, che colpisce già dai primi fotogrammi per l'originalità dietro cui si evince senza alcun dubbio la mano di un grande regista.
…Dopo la visione di Dogville di Lars Von Trier:
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- Numero 34 agosto 2004