Italo e Silvio, piantati come alberi tormentati dal vento dei loro ricordi su un palco buio dove vengono illuminati alternativamente, sono duellanti metaforici e folli che mai si incontrano. Entrambi schiavi di una passione e di un cecità : la passione amorosa per la bella Sarina, il cui corpo giace in una bara a pochi metri da loro. La cecità è quella che gli impedisce di vedere non solo dentro la loro passione, ma soprattutto di vedere dentro Sarina, di capirla, o almeno di provarci.
Questo testo teatrale in due atti di Maria Lanciotti, la scrittrice di Ciampino che da anni vive e lavora a Velletri, interessandosi attivamente a tutta la realtà culturale del territorio dei Castelli Romani e non solo, è la riduzione del romanzo La sacca del pastore della stessa autrice. Per tale adattamento la scrittrice si è avvalsa della consulenza di Piero Avallone.
Si tratta di un testo breve ma che affonda come un bisturi affilato negli angoletti più nascosti e polverosi della coscienza del lettore. Dentro il libro, infatti, la cosa che veramente conta non è "come andarono i fatti", come farebbe pensare l'esca gettata dal titolo, cioè l'evoluzione di una vicenda di fatti e di strazi che si dipana tragicamente dal triangolo Italo, Sarina, Silvio. La cosa che più conta sono, invece, i sentimenti, i ricordi, le dolenti motivazioni espresse da Italo e Silvio nei loro monologhi o falsi dialoghi con la morta Sarina.
Italo è un uomo pragmatico, passionale, violento. E' stato il marito di Sarina. Silvio, invece, più giovane e coetaneo della donna, l'ha amata già da ragazzino, apparentemente ricambiato, fino a che Sarina non si è all'improvviso sposata con Italo.
A parte le scene, in bilico fra il registro comico-grottesco e quello simbolico, in cui quattro donne sembrano ricostruire "come andarono i fatti", cioè ricuciono i brandelli sparsi delle dolorose storie da cui i personaggi provengono e che per una tragica ineluttabilità sembrano costretti a perseverare, le bolle di senso del testo sono rappresentati dai tragici monologhi interiori dei due protagonisti maschili. Tragici non solo e non tanto per la durezza di ciò che vi si racconta, ma per il semplice, terribile fatto che tali parole non sono mai state pronunciate e mai lo saranno nella loro vita reale, rimarranno per sempre lì a galleggiare nelle righe nere del libro o sopra la testa degli spettatori nel buio di una sala. I fatti vanno per conto loro, dissociati dalle motivazioni profonde che rimangono prigioniere nelle bocche e nei gesti di chi li compie o subisce.
Una dolente vicinanza a questa umanità sconfitta e comune più di ciò che possa sembrare, filtra dalla penna di Maria Lanciotti, disposizione umile che aiuta il lettore a riassaporare granelli di significato, briciole corpose e tasselli di parziali, piccole e semplici verità .
La ricerca di senso del testo si incastra intorno al buco nero rappresentato dalla presenza-assenza di Sarina. Nel vorticare lento di parole e fatti intorno a questo vuoto c'è lo scarto che può avvicinare alla conoscenza. In questo vuoto si viene risucchiati ad immaginare e sentire quello che con riuscita e studiata ostinazione la penna non ha voluto dirci.
La proposta di un doppio finale rende ancora meno assertivo il testo, facendo sì che il processo di autocoscienza del lettore sia ancora più aperto e produttivo.
Maria Panciotti, Come andarono i fatti, Empoli, Ibiskos Editrice Risolo, 2006, 74 pagg. (prezzo 12 euro)