A buona ragione Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) scrisse che non c'era al mondo piacere maggiore del profumo della vite al momento della fioritura e che l'Italia aveva una tale supremazia nella viticoltura da aver superato con questa unica risorsa le ricchezze di ogni altro paese. I castelli romani, immersi nel verde, potrebbero avere i requisiti giusti per conoscere ed apprezzare tutte le variegate e odorose sfumature delle stagioni della vite, fino al compimento del ciclo annuale nella vendemmia, il momento più carico di intensi profumi; a tal fine forse andrebbe rivisto il rapporto con il territorio di cittadini e istituzioni che dovrebbero riuscire ad apprezzarne finalmente il valore più profondo, facendo emergere, tra i capitali da valorizzare, insieme ai doni di una natura così generosa, il valore aggiunto di competenze e conoscenze che risalgono all'inizio della nostra civiltà .
L'enogastronomia occupa, infatti, uno dei posti più importanti nella vita economica e culturale del nostro Paese; riviste specializzate e programmi televisivi ci aiutano quotidianamente a conoscere i nostri vini, ad apprezzarli, a saperne distinguere la qualità e le proprietà di ciascuno. Ma spesso dimentichiamo che questa è appunto una scienza antica, che affonda le sue radici in tempi remoti: i rinvenimenti archeologici e le fonti letterarie ci forniscono illuminanti squarci sulla nascita della viticoltura, sulla produzione del vino e sull'uso e consumo di questo prezioso nettare, che sempre accompagnava la mensa, sia quella ricca che quella più modesta.
La storia del vino
Le forme più antiche di vitis a noi note risalgono all'era Cenozoica (10.000 anni fa) ed erano ermafrodite, condizione questa che facilitava, come ovvio, la riproduzione. Successivamente, forse per motivi legati alle dure condizioni climatiche dell'ultima era glaciale, la vite selvatica divenne diotica e i sessi si trovarono separati su piante diverse. La domesticazione fu probabilmente effettuata selezionando le piante che erano tornate allo stadio ermafrodito primitivo e di cui era stata notata una più regolare e sistematica produzione d'uva, da sempre utilizzata nell'alimentazione umana. E con la domesticazione la vite divenne vinifera. Una delle aree che è indicata quale probabile luogo di nascita e diffusione della vite vinifera è tra il Mar Nero e il Mar Caspio (zona transcaucasica) nei territori dell'Armenia e dell'Azerbaigian.
Tutti i vitigni oggi coltivati hanno origine da due sottospecie di vite vinifera: la sylvestris (del Mediterraneo) e la sativa (di origine euroasiatica), entrambe da considerare, ad ogni modo, quale tappe evolutive da una medesima specie. Nello specifico sembra che la coltivazione della sylvestris sia anteriore alla sativa in Grecia e in Italia in virtù di un'azione antropica assai avanzata: ritrovamenti archeologici risalenti dal Paleolitico al Bronzo Antico sono stati fatti nella zona dell'Emilia Romagna, della Toscana, della Sardegna, della Puglia e, in Grecia, nell'area della grotta preistorica di Franchthi.
Il primo vino sembra sia stato prodotto in età neolitica nell'area settentrionale del Vicino Oriente e da qui si diffuse in Egitto e nella Bassa Mesopotamia tra il 3500 e il 3000 a.C.; intorno al 2200 a.C. la bevanda fece la sua prepotente comparsa a Creta.
Vasi potori probabilmente legati all'invenzione di nuove bevande fanno la loro prima apparizione intorno al 4000 a.C.; contestualmente, fecero la loro comparsa anche i primi carri con ruote, come se già dagli albori della storia bere e correre fossero in qualche modo associati.
In Egitto la vite addomesticata fu importata ai tempi della prima Dinastia e fu piantata nelle grandi pianure alluvionali del Delta del Nilo dove si creò una vera e propria industria vinicola sotto il controllo del faraone. Uva coltivata è stata reperta in tombe della Prima dinastia (3000-2900 a.C.) e nomi di specifici vigneti compaiono nelle targhette vinarie della stessa epoca.
In ambiente mediterraneo i Cretesi minoici perfezionano e standardizzano la viticoltura per vino e per tutti i secoli XVI-XII esportarono il loro prodotto nella Grecia continentale Nel mondo miceneo l'importanza del vino rimase inalterato e, per la prima volta, il nome del dio Dioniso fu associato alla bevanda inebriante. Nel mondo greco questa divinità , figlio di Zeus e Semele, ebbe il primato dell'invenzione del processo di fermentazione che dal succo dell'uva porta al vino e diffuse al mondo intero la sua scoperta. Ma Dioniso è, per il mondo greco, anche colui che scioglie i legami che tengono legati gli esseri umani ad una determinata condizione, permettendone l'accesso ad uno stadio più evoluto: nel mondo della città greca il dio del vino diviene tutore del passaggio da uno stadio "naturale", pre-sociale, a quello cittadino, dove alla maturità sessuale si associa quella politica e civile. Il vino, proprio in quanto nettare (in greco nektar), è strumento del passaggio: ha in sé la radice nek- connessa alla morte (più o meno simbolica), e la base verbale ter- che indica l' "attraversare": il nettare è la sostanza che permette di "attraversare" la morte e, quindi, sconfiggerla.
Il considerevole potenziale vinicolo dell'Italia il cui nome di Enotria ("terra del vino") parla chiaro, comincia ad essere sfruttato all'inizio del I millennio: vinaccioli e legno di vite sono assai frequenti come offerte rituali in numerosi siti del Lazio. In Calabria, vicino a Sibari (e a nord della moderna Cirò), venne costruito un enodotto, un condotto di argilla che convogliava dalle colline circostanti il vino nella zona portuale dove veniva raccolto e quindi imbarcato. Dal canto loro gli Etruschi diedero grande impulso alla coltivazione della vite che lavoravano come piccole piante potate (i greci invece accostavano la vite ad alberi per permettere alla pianta di arrampicarsi).
Greci, Etruschi, Latini e Romani contribuirono a fare dell'Italia la terra d'eccellenza per la produzione vinicola, eccellenza che dovette, nei secoli successivi, trovare protezione presso gli imperatori: nel 92 d.C., secondo la testimonianza di Svetonio, Domiziano ricorse all'emanazione di un editto in cui veniva vietato l'impianto di nuovi vigneti in Italia e ordinata la soppressione di quelli esistenti nelle province per ovviare alla concorrenza; Traiano, subito dopo, proibì l'estendersi della cultura nelle province.
Il vino nel mondo romano
Sappiamo che nel mondo romano il vino era la bevanda per eccellenza, ma non tutti sanno che i romani, come già i greci, solitamente non bevevano vino puro, ma allungato con acqua: era il magister bibendi che nei banchetti stabiliva la percentuale di vino e di acqua da mescolare.
Il vino era molto apprezzato perché liberava l'animo dalla schiavitù degli affanni, lo risollevava e gli dava vigore e coraggio: non è un caso che il dio inventore del vino si chiamasse Libero. Seneca, arguto filosofo ed eccellente scrittore alla corte di Nerone, affermava che era bene ogni tanto arrivare all'ebbrezza non perché questa sopraffacesse l'uomo, ma lo alleviasse delle pene, permettendogli di superare le difficoltà e guarendolo dalla tristezza. Tutti gli scrittori romani, comunque, concordavano sulla necessità della moderazione e raccomandavano di non abusare dei doni del dio Libero.
Come nei tempi attuali, anche nell'antica Roma il vino migliore veniva invecchiato e conservato in cantine, ove l'antichità delle anfore era considerata un motivo di vanto per il possessore. Gli autori antichi esaltano il sapore amaro che racchiudeva il vino vecchio, a volte diventava così denso che bastavano poche gocce per valorizzare il gusto dei vini più recenti. Trimalcione, l'arricchito megalomane e privo di gusto cantato da Petronio nel Satyricon, utilizzava il vino al posto dell'acqua per far lavare le mani ai suoi ospiti.
Sull'uso del vino il mondo romano era estremamente democratico: tutti lo bevevano, le maggiori o minori possibilità economiche del padrone di casa si manifestavano nella qualità e nella percentuale di vino allungato nell'acqua. Anche le donne ne bevevano: Plauto nelle sue commedie evidenzia quest'usanza, soprattutto a proposito di cortigiane e mezzane. E a quanto si legge negli antichi testi bere il vino faceva bene all'amore, sebbene alle austere matrone romane le più antiche tradizioni vietassero severamente di berne. All'epoca di Romolo una donna fu uccisa dal marito solo per averlo assaggiato.
Un'altra curiosità : in antico il vino si beveva caldo e di solito a digiuno, per avvertirne maggiormente il gusto e godere l'ubriachezza a stomaco vuoto, perché bere vino dopo mangiato era ritenuto volgare. Invece bere vino misto a neve o raffreddato con acqua di neve era considerato un'ostentazione di ricchezza.
Ma quali erano i vini più rinomati nell'antichità ? Plinio ci informa che delle circa ottanta qualità famose in tutto l'impero due terzi erano in Italia. Nelle cantine dei ricchi non poteva mancare il Falerno, definito immortale, ardente, nero, forte e vecchio; quando lo si versava nelle coppe esso produceva un effetto di spuma. Nelle pianure pontine si produceva il Cecubo, famosi erano anche i vini della zona di Minturno (il Massico che si univa al miele dell'Attica), di Sorrento, di Spoleto, di Cere, di Sezze e il vino Retico, preferito quest'ultimo da Augusto e da Virgilio. Ma non potevano certo mancare nella lista dei migliori vini antichi, quelli di Albano, molto apprezzati e famosi, prediletti da alcuni autori come Orazio e Marziale e che Plinio definisce "molto dolci e di rado forti". Gli antichi non risparmiavano giudizi negativi sui vini dei Peligni, di Veio e del colle Vaticano, definito addirittura veleno. Il vino, inoltre, poteva essere profumato con la mirra, unito al miele e al pepe, aromatizzato con petali di rosa (il rosatum) o di viole (il violacium).
Nei conviti i commensali non avevano alcuna libertà di bere secondo il proprio desiderio, il gusto e la capacità : in genere veniva usata una graduatoria di bontà per il vino da offrire agli ospiti a secondo del loro rango. La discriminazione si verificava anche riguardo alla disposizione dei posti e alla cura con cui si servivano gli invitati: i cibi e le bevande migliori e più abbondanti, le cure più attente erano destinati agli ospiti più importanti. Trimalcione, però, con la sua consueta delicatezza, avvisa i commensali che il vino servito è certamente migliore di quello offerto nel banchetto precedente, cui avevano partecipato personaggi ben più importanti dei presenti. Quanto sfoggio di magnanimità e grandezza d'animo!
Naturalmente il vino che si mesceva nelle taverne era di solito scadente e anonimo, piuttosto economico. La povera gente in casa beveva una fresca miscela di acqua e aceto (la posca), mentre per i servi i padroni riservavano un vinello fatto con acqua, feccia e vinacce o con uva di scarto.
I romani conoscevano molti rimedi per migliorare il gusto del vino: per addolcire quello aspro, per eliminare il cattivo odore, per cambiargli il colore; sapevano tutti gli accorgimenti per non farlo ammuffire, né inacidire e per fargli conservare il sapore del mosto dolce. I testi degli antichi, e non solo di quelli che si occuparono di vinicoltura come Columella, sono ricchi di ricette e di suggerimenti per ogni evenienza. Tutte queste sapienti e variegate citazioni letterarie rivelano la centralità che il vino occupava nell'esistenza dei romani: elemento principe di ogni pasto. Fonte di gioia, ma anche di dispiacere e a volte di dispute violente a colpi di coppe e di bottiglie.
Ai banchetti formali, spesso come abbiamo visto rigidi e noiosi, si preferivano di gran lunga le cene tranquille senza pretese, né etichetta. Frequentemente emerge negli scrittori antichi il desiderio di sereni conviti, tra amici fidati, con pietanze semplici e saporite, davanti ad un focolare d'inverno o al fresco d'estate: Cicerone amava conversare piacevolmente a tavola con i suoi vicini, prolungando la compagnia fino a notte inoltrata. Come non comprenderlo e come non vedere in ciò un'importante testimonianza della continuità di vita che conserva miracolosamente immutati usi e costumi nel tempo? Cicerone con i suoi nobili commensali negli ombreggiati triclini della sua famosa villa di Tuscolo; noi alla ricerca di luoghi ameni, in cui conversare serenamente anche fino a notte tarda accompagnati da amici cari con cui condividere cibi e vini degni di questa antica e nobile tradizione.