Mediazione Culturale e Appartenenza alla Comunità rappresentano concetti ai quali, giustamente, sempre più si fa ricorso.
Se da una parte la loro diffusione è senz'altro una delle giuste risposte alla complessità delle società in cui viviamo, in queste brevi note ci sia concesso di far presente alcune accezioni assai limitanti di questi termini.
Quando parliamo di mediazione culturale infatti spesso pensiamo all'interazione di soggetti ognuno dei quali sia portatore di una sola cultura. Questo è il primo luogo comune da sfatare.
Molto difficilmente una persona, in particolare oggi, appartiene ad una sola cultura.
Chi scrive è stato educato, come molti in questo paese, alla prassi cristiana cattolica.
Questa prassi e questa cultura aborriscono il magismo, che è comunque sopravvissuto nelle pieghe delle nostre società ed anzi gode attualmente di un ottimo stato di salute.
Se un gatto nero attraversava il vialetto della Clinica Psichiatrica Universitaria in cui ho lavorato per tanti anni, vi posso garantire che non ero certo l'unico medico che rallentava il passo, sia pure scherzandoci su, per farsi superare da un qualche collega, meglio se antipatico.
Eppure la mia cultura cosciente era già rigidamente scientista, assai distante dalla fede che mi faceva tremare quando da ragazzino mi sentivo costretto a dettagliare in confessione gli atti impuri. Ma come è esplicito nei miei sogni, ai quali come ogni analista che si rispetti devo fare molta attenzione, è costante in me, come del resto in chiunque, la messa in scena di tutte le stratificazioni culturali disposte a diversi piani della coscienza, sempre pronte ad attivarsi in contesti particolarmente favorevoli per quella determinata modalità di stare nel mondo.
Forse non c'è sempre bisogno di scomodare un intervento divino per spiegare come anche il più apparentemente incallito dei materialisti mangiapreti che soffra per una preoccupante malattia possa, come non raramente accade, risvegliare l'armamentario difensivo magico o religioso che aveva custodito da qualche parte della sua mente, intatto e vitale come un orsetto dopo un letargo.
In molte psicoterapie ci si rende conto che non basta affrontare la questione dei conflitti tra la nostra parte pulsionale e il Super Io, ma occorre affrontare anche quella dei conflitti tra i diversi modelli culturali in noi conviventi, come tra i valori ai quali siamo stati educati dalle nostre famiglie vari decenni fa e quelli socialmente condivisi attualmente che possono facilmente entrare in collisione tra di loro.
In questa ottica lavorare sulla mediazione culturale assume una centralità e un'urgenza che riguarda qualunque aspetto del buon clima collettivo: la scuola, il lavoro, la famiglia, la coppia e la persona.
A proposito, al nostro gruppo di ricerca non piace più, da tanti anni, la parola mediazione, riferita alle culture.
Questa parola, in un'accezione rozza quanto mai diffusa, indica un processo in qualche modo artificiale che ha come obbiettivo sia pure non dichiarato il superamento delle culture di appartenenza a vantaggio di un frullato omogeneo in cui gli ingredienti siano stati equamente dosati.
Non abbiamo nulla contro la piadina romagnola al Kebab e nemmeno contro Le avventure di Topolino e Pippo nella Città Proibita: ben vengano se gratificano i palati e ci fanno sorridere, rispettivamente.
Quello che però noi pensiamo, vista la complessità della questione, è che la cosa più importante sia prima di tutto partire dalle specificità culturali e poi realizzare dei buoni contenitori relazionali allargati, come ad esempio dei gruppi di Arte Terapia sulla cui descrizione più dettagliata mi riservo dello spazio in un prossimo articolo, all'interno dei quali le persone possano liberamente valorizzare le loro complessità e costruire linguaggi comuni senza per questo appannare la loro storia individuale, familiare ed etnica.
Apparirà chiaro a questo punto perché i nostri corsi triennali di Arte Terapia di prossima realizzazione (a partire dal 19 Aprile 2008) li abbiamo definiti Corsi di Arte Terapia e di Tecniche per la Facilitazione delle Interazioni Culturali e non, come per l'appunto la vulgata detterebbe, di Mediazione Culturale.
Detto questo, possiamo conseguenzialmente affrontare l'altro punto a cui abbiamo fatto inizialmente riferimento, quello dell'Appartenenza alla Comunità .
Anche in questo caso il senso comune non rende giustizia alla complessità della questione.
È infatti del tutto superata la rigida sovrapposizione tra la comunità ed un territorio fisico. Altrettanto superata è anche l'idea che ad ognuno di noi spetti un'unica appartenenza.
Ormai anche l'appartenenza è molteplice. Anzi forse lo è sempre stata.
Ad un occhio un po' più attento di quello che l'etnocentrismo colonialista ha finora potuto tollerare, anche i cosiddetti primitivi non vivevano e non vivono tuttora in una dimensione comunitaria del tutto omogenea.
L'organizzazione dei clan e delle tribù spesso era tale che, ad esempio, i matrimoni misti erano considerati quasi un dovere e quelle spose, quegli sposi e i loro figli, spesso vivevano una complessità dell'appartenenza non così dissimile dalla nostra. Del resto, da quando esiste l'homo sapiens, I frutti puri impazziscono come ci ammonisce un verso di William Carlos Williams e il titolo di un bel libro dell'etnologo James Clifford.
Prima di descrivere un'applicazione nella pratica di questi modelli teorici, ancora una domanda: secondo voi, il funzionamento cognitivo e quindi anche le capacità di apprendimento di un bambino che vive in un paese diverso da quello in cui sono nati i suoi genitori, sarà avvantaggiato oppure no dalla conoscenza delle sue tradizioni culturali? Ne La natura culturale dello sviluppo l'antropologa e psicologa americana Barbara Rogoff analizza assai approfonditamente la questione. Alla luce degli studi più attuali non vi sono possibili dubbi, la base sicura interiore che permette al bambino di esplorare il mondo non è costituita solo dalla solidità emotiva degli adulti che si prendono cura di lui, ma altresì anche dalla conoscenza e consapevolezza delle proprie radici culturali.
Insomma, poiché va da sé che un bambino ben formato dalla scuola è ovviamente a minore rischio di devianza, lo sfumarsi della cognizione della propria etnia non consolida le fondamenta della buona convivenza per tutta la collettività .
Ben poche cose sono quindi socialmente pericolose come questa sorta di analfabetismo antropologico di ritorno, che potremmo anche definire familiare, perché sono gli adulti stessi a dimenticare, ad esempio, le fiabe della loro tradizione.
Per dirla sinteticamente e rimandando un approfondimento in prossime occasioni, quello che stiamo costruendo con i responsabili del Consorzio SBCR è la possibilità che, ad esempio, gli emigrati di una determinata etnia ben rappresentata nel territorio dei Castelli abbiano la possibilità negli spazi delle biblioteche di riscoprire attraverso metodiche attive, come l'Arte Terapia e non solo, il loro patrimonio culturale per poi successivamente condividerlo tramite le stesse tecniche con altre etnie, comprese quelle autoctone; anche in questo caso il plurale è doveroso, ché nemmeno noi italiani siamo poi così tanto omogenei e ben integrati.
Le prime sperimentazioni di queste metodiche - che hanno in ogni modo ormai qualche anno di vita - hanno dato, anche in quartieri ad alto rischio d'emarginazione delle periferie romane, risultati molto incoraggianti, tanto da organizzare, e ci auguriamo in tempi brevi inaugurare, un Sito che metta a disposizione di tutti un Data Base con le fiabe di tutte le culture presenti nel nostro territorio, illustrate e messe in scena con tecniche di animazione grafica dai bambini stessi.
Un materiale che possa essere utilizzato persino dalle famiglie, dalle comunità per meglio accudire i loro piccoli tesori umani in crescita e per far sì che in definitiva tutti si diventi cittadini più integrati nella collettività .
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Alessandro Tamino
Direttore "Scuola di Arti Terapie"
alessandrotamino@libero.it
06/40802272 - 339/1784620