Iniziamo l'intervista a Massimo Marcheggiani, alpinista internazionale a cui si deve la conquista di una cima himalayana dedicata alla Città di Frascati, con una domanda d'obbligo, capire come mai un castellano DOC, nato a Frascati, possa aver scelto di dedicare la sua vita all'alpinismo, si è trattato di un approccio avvenuto gradualmente o di una passione improvvisa?
Certamente non è una scelta di vita normale per chi vive ai Castelli Romani, una realtà culturalmente lontana anni luce da quella che è la storia dell'alpinismo. La mia non è stata una decisione razionale, è stato piuttosto un percorso compiuto passo dopo passo verso una vita dedicata all'alpinismo. La "colpa" di questa scelta è da attribuirsi principalmente ai preti perché durante la mia infanzia, in un campeggio organizzato da loro, salendo in montagna in funivia vidi due puntini rossi arrampicati sulla parete sud della Paganella, quella visione mi colpì talmente che a distanza di più di quarant'anni è ancora chiara e vivida nella mia memoria, credo che quello sia stato l'input iniziale che ha condizionato le mie scelte esistenziali. Comunque l'inizio vero e proprio della mia attività di alpinista è iniziata molto più tardi, quando avevo ventisei anni, con degli amici d'infanzia, prima con una corda comprata in ferramenta, con tutti i rischi che ciò comportava, poi con attrezzature più consone e sicure, abbiamo compiuto un percorso tutto nostro, da perfetti autodidatta, in seguito loro hanno fatto scelte diverse, mentre io ho fatto dell'alpinismo la priorità della mia vita.
Quali sono le emozioni e le sensazioni che si provano durante un momento di stress psicofisico derivato dall'impegno dell'alpinismo?
Razionalmente non riesco a descrivere compiutamente ciò che si prova durante la scalata di una montagna, non è facile esprimere con parole un sentimento forte come quello dell'amore, similmente fare alpinismo suscita una sensazione interiore di piacere, ci induce a fare la cosa giusta al momento giusto. L'alpinismo è un'attività faticosa con l'aggravante del rischio e del freddo se si compiono scalate d'inverno, specie in alta quota quando è facile raggiungere temperature di 15-20 gradi sotto zero. Spiegare il perché una persona corre rischi così elevati e cosa si prova in certi momenti è praticamente impossibile, posso dire che sia determinante la consapevolezza del piacere nell'affrontare il rischio, nel conoscere il grande freddo, nel mettere alla prova il proprio corpo scalando per più giorni consecutivi, come mi è successo durante una scalata su una vetta inviolata di oltre settemila metri sull'Himalaya, quando impiegai sei giorni per portare a termine quella prova. La continuità , minuto per minuto, dello sforzo, del rischio e anche della paura durante un'impresa del genere suscita, per altri versi, la consapevolezza interiore di compiere un'impresa gratificante perché fortemente voluta.
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Come definirebbe l'alpinismo: uno sport, un'arte, una passione o qualcosa di più di tutto questo?
Qualcuno definisce la scalata come una creazione artistica, ritengo che la creazione artistica sia la produzione di un oggetto, sia esso una statua, un quadro, un movimento della danza e via dicendo. La scalata in realtà apre un percorso ideale di salita verso una cima, volendo idealizzare tutto questo potrebbe affermare che si tratta di un'opera d'arte perché raggiungere la vetta di una montagna significa anche conseguire un risultato che va al di là del puro sforzo fisico, l'esempio che più si avvicina a questo concetto è esemplarmente narrato nel romanzo di René Daumal dal titolo "Il Monte Analogo".
Ma oltre all'aspetto filosofico è evidente che la componente sportiva sia presente, perché il fisico è sottoposto a uno sforzo, l'alpinista da un punto di vista atletico subisce un notevole stress psicofisico.
Alcuni utilizzano la scalata come una sorta di sfida contro un avversario che è la montagna, instaurando con essa un rapporto conflittuale, mentre, per quello che mi riguarda, il conflitto è del tutto assente, cerco invece di utilizzare il rapporto con la montagna per ottenere una sorta di feedback emozionale dovuto alle sensazioni scaturite durante la scalata.
Nella sua storia di alpinista ha avuto dei modelli, dei maestri che ha seguito come esempio o come ha precedentemente affermato è stato un autodidatta?
Rivendicando un approccio autodidatta a questa disciplina, ovviamente la mia crescita è avvenuta anche grazie agli incontri con persone che hanno influito sul mio modo di avvicinarmi alla scalata. Devo ricordare in particolar modo Pierluigi Bini, un alpinista che ha influito in modo determinante sulle mie scelte. Quando lo incontrai avevo venticinque anni e lui diciassette, era un autentico fuoriclasse. Oltre alla sua giovane età fu notevole la sua rottura con tutti gli schemi tradizionali dell'alpinismo. La scalata tradizionale consisteva nel seguire alcune linee di condotta in montagna che appartenevano a una tradizione consolidata e all'utilizzo di materiale piuttosto pesante come gli scarponi, lo zaino e via dicendo. Pierluigi, insieme a pochissimi altri, ha abbandonato il vecchio metodo per seguire una sua strada, quella della leggerezza, della velocità e del gusto dell'arrampicata semplice e diretta. Ricordo ad esempio che quando conobbi Pierluigi Bini avevo ai piedi i miei scarponi da montagna mentre lui aveva un paio di leggerissime Superga da tennis, il cui odore era tutt'altro che gradevole, però con quelle scarpe Bini riusciva a fare delle cose che per me, fino a quel momento erano state inimmaginabili, primo perché era bravo poi perché con la leggerezza del piede, dovuto al tipo di scarpa utilizzata, aveva non una ma cinque marce in più. La conseguenza ovvia fu che io da capocordata accettai con piacere di fare da secondo avendo lui davanti. Con quella esperienza anche io mi sono alleggerito non solo nell'abbigliamento, ma anche concettualmente, abbandonando una tradizione alpinistica pesante e superata. Un altro modello, che si trova agli antipodi di Bini, è stato Walter Monatti, alpinista di fama internazionale. Da un lato ho tratto dei giovamenti notevoli dal suo esempio, dall'altro ho sofferto non poco, nel senso che la lettura delle avventure narrate nei suoi libri hanno costituito per me un traguardo da raggiungere, però è anche vero che i suoi libri descrivono una montagna segnata da scariche di fulmini, bufere, incidenti mortali a destra e a manca, quindi evidenziava anche un aspetto dell'alpinismo greve, drammatico.
Da questi due esempi ho cercato di trarre gli aspetti che più ammiravo cercando di incarnarne una sintesi di due atteggiamenti opposti, la sofferenza di un certo tipo di scalata e di contro la bellezza della velocità , della bellezza dell'arrampicata moderna.
A proposito di scalate pericoloso, ci sono state esperienze di particolare rischio e pericolo nella sua storia di alpinista?
Premettendo che la scalata di una montagna, anche facile, comporta dei rischi, nel mio iter alpinistico ho vissuto diversi momenti drammatici. Il più pericoloso è stato durante il tentativo di scalata della parete sud del Nanga Parbat, in Pakistan, alto 8.124 metri, eravamo intorno ai 6.200 metri quando siamo stati investiti da una valanga di dimensioni mai viste prima. In realtà io e i miei compagni di cordata ci siamo trovati dentro la valanga e quindi non abbiamo avuto la percezione della esatta dimensione della valanga, ho però in seguito visto le fotografie scattate dai membri della spedizione che si trovavano nel campo base e ho potuto rendermi conto della potenza immane di quell'evento naturale.
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In quel caso quali sono state le sue emozioni?
Siamo usciti incolumi in parte grazie alla nostra astuzia, ma il maggior merito va alla nostra fortuna sfacciata, l'emozione maggiore è stata quella di rendermi conto di essere stato investito dalla violenza assoluta della natura e da questo aver capito quanto sia potente. In quell'occasione ho avuto modo di capire quanto noi uomini siamo impotenti e piccoli in confronto alla sua grandezza.
Oltre alla sua attività di alpinista da qualche anno lei ha aperto una scuola di arrampicata ai Castelli Romani, quale è lo scopo di questa iniziativa?
Pur ritenendomi un alpinista da tempo avevo maturato il proposito di divulgare l'arrampicata sportiva, nel 1998, grazie all'interessamento dell'amministrazione comunale ho avuto la possibilità di realizzare un muro di arrampicata abbastanza grande all'interno del palasport di Ariccia. Questo centro è diventato un punto di riferimento non solo sportivo ma anche culturale, qui vengono persone che si esercitano nella pratica dell'arrampicata verticale per poi comporre delle cordate che materialmente e simbolicamente uniscono degli individui che nello stesso momento si preparano ad affrontare un percorso ostile. Quindi questa parete, unica nei Castelli Romani e una delle poche nel Lazio, ha l'importanza di far incontrare delle persone che possono svolgere un'attività praticabile dalle pareti di Gaeta, in prossimità del mare, fino alla vetta più alta del mondo l'Everest.
Visto l'impegno psicofisico che si deve affrontare nell'arrampicata, c'è un limite minimo e uno massimo per praticare questa disciplina?
Molti sport si iniziano a praticare nell'adolescenza, anche l'arrampicata che lentamente si sta inserendo nel contesto sportivo del nostro Paese può essere praticata da bambini di cinque ai sei anni che imparano a coordinare il loro corpo in un movimento particolare, quello verticale, ovviamente con l'assistenza di un istruttore che assicuri la completa sicurezza durante la pratica. I limiti d'età a salire non esistono, nella nostra scuola vengono anche persone che hanno superato i sessant'anni in piena forma fisica, ritengo che mantenendo una buona condizione fisica possano praticare l'arrampicata per altri venti, venticinque anni, faccia lei i calcoli.
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Il 19 maggio presso la Biblioteca comunale di Frascati alle ore 17.00, Massimo Marchigiani sarà presente alla presentazione del libro
Massimo Marcheggiani e Loretta Spaccatosi, Una scelta. Editore Ricerche, 2008