L'ultima creazione letteraria di Moni Ovadia, realizzata con la collaborazione del giornalista Gianni Di Santo ha un titolo intrigante e il sapore di un viaggio, un percorso nella memoria del cibo che parte dalla manna del deserto, percorre le sponde del Mediterraneo e approda infine alla cena di Pesakh, la Pasqua ebraica. Il "conto dell'Ultima Cena" è in realtà un finto aneddoto, un'invenzione letteraria dello scrittore, che narra con affascinante suggestione l'esistenza di uno strano rito conosciuto soltanto da pochi adepti. Ogni qualvolta un nuovo papa saliva al soglio di Pietro, una delegazione della comunità ebraica era solita recarsi in Vaticano per rendere omaggio al nuovo pontefice. Il rabbino capo durante questo incontro segreto, compiva un gesto rituale: dopo aver estratto dal suo mantello un'antica pergamena sigillata, la porgeva con aria alquanto seccata al pontefice, il quale, con aria di totale indifferenza, mostrava senza peraltro proferire parola, di non aver nessuna intenzione di accettarla. Quindi la delegazione abbandonava in fretta la scena. Nessuno seppe mai il motivo di questo singolare cerimoniale, ripetuto senza variazioni di sorta, per molti secoli. Ci fu un pontefice tuttavia, piuttosto curioso, il quale decise di scoprire che cosa significasse quel rito singolare. Chiese pertanto ai suoi diplomatici di organizzare, dopo il rito ufficiale, un incontro segreto con il ministro del culto ebraico. In uno studiolo privato il papa e il rabbino, lontani da occhi indiscreti, con l'ausilio del vapore e senza danneggiare il sigillo, aprirono il documento per svelarne finalmente il contenuto. I due, trepidanti, srotolarono la pergamena e lessero l'intestazione: «Conto dell'Ultima Cena», conto che nessuno ovviamente aveva provveduto a saldare. Questo aneddoto è lo spunto da cui si sviluppa il libro, che ne conserva traccia tanto da farlo divenire parte integrante del titolo. Ovadia e Di Santo hanno poi elaborato dei quesiti e delle ipotesi riguardo lo svolgimento di quest'ultimo pasto: sui cibi consumati da Gesù, sulle preghiere e sui canti recitati, sui riti da lui portati a compimento in quell'occasione. Naturalmente non si tratta di una verità , ma di una ricostruzione a posteriori, verosimile; la cena ha un significato di carattere spirituale e diviene dunque l'occasione per una narrazione legata a taluni cibi ricostruiti attraverso il loro valore storico e simbolico. Durante la cena Gesù avrà dunque consumato del pane azzimo (matzà ) "dal delizioso sapore di cartone al forno", che gli ebrei trovano squisito perché è il pane della libertà , il simbolo dell'uscita dalla schiavitù, non lievitato perché non c'era tempo di attenderne la crescita. Ci saranno stati altri cibi, come ad esempio il kharoset,una specie di "fango" dolce, a base di datteri, fichi e mandorle, che ricorda quello con cui gli ebrei erano costretti ad impastare i mattoni durante la schiavitù egiziana; ci sarà stata l'erba amara (maror) per ricordare l'afflizione della schiavitù ma anche il lutto per la morte degli Egizi nelle acque di Yam Suf. Il cibo è dunque l'elemento centrale della narrazione a cui si accompagna la descrizione dei precetti e dei rituali da osservare scrupolosamente durante il pasto. Gli ebrei della diaspora hanno saputo conservare la propria identità anche e soprattutto attraverso le proprie consuetudini alimentari. Il loro esilio forzato dice Ovadia, è una condizione condivisa anche con altri popoli, ad esempio i Greci residenti in Turchia nel secolo scorso. Per questo cita e analizza un bellissimo film di Tassos Boulmetis - Politikì kuzina (Cucina della città )- frutto di una coproduzione greco-turca e distribuito in Italia con il titolo di "Un tocco di zenzero". Attraverso il cibo il regista ci narra una storia familiare e sentimentale, descrivendo allo stesso tempo un complicato periodo storico, quello del conflitto tra Grecia e Turchia; un dissidio ricomposto a tavola, quando scopriamo quanto la cucina dei greci della Polis fosse vicina a quella dei concittadini turchi, da cui differisce soltanto per la pronuncia dei nomi. Moni Ovadia ha poi compiuto un viaggio a ritroso nel tempo, ricercando le proprie origini attraverso l'analisi delle ricette e dei cibi consumati durante la sua infanzia. Una storia ricostruita negli ultimi capitoli del libro, grazie alla cucina dell'amica Janette, di origine egiziana, impareggiabile esperta di spezie, pronta a svelarci i segreti della gastronomia orientale e alle ricette di Edith Wintver, moglie di suo cugino, depositaria della tradizione culinaria sefardita bulgara della famiglia Ovadia. Ciò che occorre recuperare, afferma lo scrittore, è il valore spirituale del cibo; in poco più di cinquant'anni siamo passati dall'indigenza contadina alla bulimia consumista e questo in maniera sostanzialmente scriteriata, folle, devastante. Il fil rouge che muove il libro è in fondo una sollecitazione amichevole, non fanatica, verso un'alimentazione di orientamento vegetarianista. Basterebbe prendere in considerazione un solo dato, fra tanti: in America vengono macellati ogni anno più di dieci miliardi di animali, con pesanti conseguenze sull'inquinamento; non saranno soltanto le fabbriche ad avvelenarci - afferma l'autore - saranno gli allevamenti intensivi ed industriali a distruggere il pianeta.
Una volta noi cucinavamo così
(Le ricette multietniche di Edith)
[...]Ebrea ashkenazita di origine polacca, Edith Wintver è nata in una famiglia di sopravvissuti alla Shoah. E' la moglie del mio ottantenne cugino Isacco Ovadia. Entrata nel nostro mondo grazie al suo matrimonio con Isacco, ha appreso dalla suocera Lisa l'arte culinaria di noi sefarditi bulgari, divenendone un'interprete straordinaria. E' proprio grazie a lei che il patrimonio di sapori e colori della mia famiglia continua ad essere tramandato...
Di seguito viene riportata una delle sue ricette, un piatto unico particolarmente gustoso...un omaggio alla sua generosità ed al suo talento...
LA RICETTA
Pomodori e peperoni ripieni
Ingredienti
6 peperoni verdi piccoli;
6 pomodori rossi e rotondi;
3 etti di carne macinata di vitello;
1 fetta di pancarré ;
sale e pepe;
1 cucchiaio di riso crudo;
olio d'oliva;
1 scatola di passata di pomodoro;
2 limoni;
2 uova.
Prendere i pomodori, svuotarli dell'interno e metterlo da parte per unirlo alla carne trita, macinata una volta sola, insieme a una fetta di pancarré ammollato in acqua e strizzato, del sale e un po' di pepe. Ripetere l'operazione con i peperoni, dopo averli svuotati e privati del picciolo e dei nervetti. In più, solo nei peperoni, aggiungere un cucchiaio di riso crudo. Trasferire il tutto in una pentola: i peperoni vanno sotto, perché cuociono con l'acqua che i pomodori buttano via. Cospargere di olio d'oliva, poi unire una scatola di passata di pomodoro e il succo di un limone, coprire e far cuocere per un'ora a fuoco lento. Lasciar raffreddare, poi passare tutto in una teglia e cospargerlo con il sugo di cottura rimasto, unito a un limone spremuto e a due uova sbattute. Aggiungere altro olio («A Isacco piace dietetico, papeado come dite voi sefarditi, mantecato come si dice in italiano», ironizza Edith) e mettere in forno a 180-200 gradi finché il sugo si raddensa e gli ortaggi risultano un po' tostati. - Non è un piatto facile, - commenta Isacco da autentico buongustaio. - Appena uscito dal forno, con tutta quell'acquetta, non è buono. Per essere apprezzato al meglio va gustato a distanza di ore se non addirittura il giorno dopo [...]
(da Il conto dell'Ultima Cena. Il cibo, lo spirito e l'umorismo ebraico/ Moni Ovadia; con Gianni Di Santo,Torino, Einaudi, 2010)