Sesto romanzo dello scrittore, filosofo, medievalista e semiologo, Umberto Eco, "Il Cimitero di Praga", edito nel 2010 da Bompiani, è un grandioso affresco storico costruito sulla falsariga degli scritti di Alexandre Dumas e Eugène Sue, un romanzo d'appendice di stile ottocentesco, un feuilleton dalla trama complessa e zeppa di rimandi letterari, composto da oltre cinquecento pagine intervallate da numerose illustrazioni. Il testo, di non facile approccio, ha peraltro incontrato il favore della critica, ma soprattutto dei lettori, che ne hanno decretato il successo collocandolo ai primi posti nelle classifiche di vendita. Componimento narrativo di indubbia erudizione, l'opera si snoda attraverso l'attenta descrizione di alcuni degli avvenimenti storici più importanti della seconda metà del XIX secolo, narrazione permeata dai fermenti rivoluzionari dell'età risorgimentale e trasmessa al lettore con un linguaggio ricco e sontuoso, peculiare stilema dello scrittore, conosciuto in tutto il mondo grazie al romanzo "Il nome della rosa" (Premio Strega 1981). Nei bassifondi della Ville Lumière, nei pressi di Place Maubert, in un polveroso negozio di robivecchi, il lettore si imbatte così, da subito, in un personaggio misterioso, tanto da essere sconosciuto allo stesso autore del testo, che ne scoprirà l'identità durante lo svolgersi del racconto. Il visitatore che si fosse avventurato nel locale avrebbe infatti individuato seduto ad un tavolo "un individuo anziano avvolto in una veste da camera, il quale, per tanto che il visitatore avesse potuto sbirciare sopra le sue spalle, stava scrivendo quello che ci accingeremo a leggere..."; lo "stesso Narratore non sa ancora chi sia il misterioso scrivente, proponendosi di apprenderlo (in una col Lettore) mentre entrambi curiosano intrusivi e seguono i segni che la penna di colui sta vergando su quelle carte". Uno stratagemma ingegnoso, partorito dalla sconfinata creatività dell'autore, che gli permette di osservare dall'esterno la costruzione letteraria del romanzo nel suo divenire. Sul palcoscenico allestito con maestosa perfezione da Eco, si muove dunque con spregiudicata e baldanzosa tracotanza il protagonista principale del racconto, il capitano Simone Simonini, l'unico personaggio inventato del romanzo, sul quale lo scrittore concentra tutte le macchinazioni, i delitti e le nefandezze più turpi. Simonini, spaesato viandante negli angusti e tortuosi sentieri della propria coscienza, sull'esempio fornito da Bourru, è convinto di poter raggiungere una sorta di consapevole cognizione del proprio malessere esistenziale, attraverso un procedimento di autoipnosi. Decide per questo di tenere un diario a ritroso nel tempo, dove verranno annotati tutti gli accadimenti di cui è stato protagonista. La sua complessa e composita personalità è stata d'altra parte fortemente condizionata dalla presenza del nonno Giovan Battista Simonini, dapprima ufficiale dell'esercito sabaudo, poi arruolato sotto i Borboni di Firenze, che nell'austera Torino, l'ha cresciuto ed educato con l'ausilio di un precettore gesuita, dopo che i suoi genitori sono morti, entrambi in giovane età . Fervente seguace dell'abate Barruel, l'accanito oppositore degli illuministi - "i negatori di ogni fede che avevano dato vita all'infame Encyclopédie" - e in seguito dei rivoluzionari, il nonno gli ha inculcato, fin dall'infanzia, un odio profondo nei confronti dei massoni e soprattutto degli ebrei, tanto che per anni la figura dell'orribile Mordechai, lo ha terrorizzato in sogno, inseguendolo per costringerlo a cibarsi del "pane azzimo impastato con il sangue dei martiri infanti". Ma la sua malevolenza non è indirizzata soltanto contro i giudei, l'astio dimora nel profondo del suo essere e all'insegna dell' "Odi ergo sum", investe praticamente tutto e tutti, anche se stesso. Presso lo studio dell'abile furfante-notaio Rebaudengo ove è impiegato come tabellione, Simone Simonini, si specializza nella falsificazione di ogni genere di documenti, attività che avrà modo di perfezionare durante l'intera esistenza, trascorsa tra Torino, Palermo e Parigi. Goloso impenitente, misogino, spia e bieco servitore del potere, fabbrica una mole enorme di atti fittizi, costruisce prove per avvenimenti mai accaduti, ordisce complotti, sventa congiure mai esistite e non esita a elargire i propri servigi anche ai propri avversari, dietro pagamento di ingenti somme. Così quando nell'aprile del 1860 in Sicilia scoppiano i moti insurrezionali e Garibaldi entra in azione, sbarcando a Marsala con un manipolo di mille volontari, Simonini, sotto copertura dei servizi segreti sabaudi, raggiunge la nave Emma di proprietà dello scrittore Alexandre Dumas che ha voluto affiancare e sostenere la spedizione garibaldina; dovrà fornire informazioni ai servizi e distruggere i registri redatti dal capitano Nievo, mentre "ufficialmente", come inviato del giornale diretto dal professor Boggio, celebrerà le imprese di Dumas e di Garibaldi, che stando all'entusiastica descrizione dello scrittore francese, possiede "barba bionda e occhi azzurri, tanto da somigliare al Gesù dell'Ultima cena di Leonardo". Ma l'irreale descrizione viene subito contaminata dall'ironia di Eco, che ribalta e stravolge l'apollineo ritratto: l'eroe infatti si presentava in realtà "di statura modesta, non biondo ma biondiccio, con le gambe corte e arcuate e, a giudicare dall'andatura, affetto da reumatismi". Sono pagine particolarmente suggestive quelle dedicate dall'autore alla descrizione dell'impresa dei Mille. Sulla scena si avvicendano così il generale Giuseppe Garibaldi, il suo luogotenente Nino Bixio, Abba, Bandi, e il capitano Ippolito Nievo, combattente e tesoriere della spedizione. Quest'ultimo dopo la liberazione della Sicilia, nel marzo del 1861 si imbarca sul postale Ercole, alla volta di Napoli, dove non giungerà mai, vittima di un attentato ordito da Simonini, che provvede all'eliminazione non solo dei compromettenti registri dell'impresa garibaldina ma anche a quella del suo estensore. La storia ufficiale racconterà poi che la vecchia nave era naufragata nei pressi dello Stromboli e Nievo scomparso insieme ai suoi compagni. Soddisfatto per aver portato a termine il suo progetto, Simonini aveva addirittura festeggiato la riuscita dell'operazione, concedendosi una lauta cena a base di pasta con le sarde e piscistocco alla ghiotta, in una taverna di Bagheria. Ma il vasto clamore suscitato dalla sparizione della nave, lo costringe ad abbandonare Torino e a trasferirsi a Parigi, dove lavora come informatore politico. Ben presto affianca all'attività , anche quella di falsario, dalla quale ricava ingenti introiti. Denaro speso presso i locali più noti di Parigi come il Grand Véfour, frequentato si dice, da Victor Hugo, che vi consumava il petto di montone ai fagioli bianchi, il Café Anglais, e nel passage Jouffroy, il Dîner de Paris, il Dîner du Rocher, il Dîner Jouffroy, considerati i tre migliori ristoranti della città . Nel testo l'autore ne menziona moltissimi, come numerose sono le ricette di cucina citate, per alcune delle quali viene stilato l'elenco degli ingredienti e descritto il procedimento di realizzazione. Successivamente, implicato nell'organizzazione di un attentato dinamitardo contro Napoleone III, Simonini conduce un abile doppiogioco, grazie al quale riesce ad apparire come colui che ha sventato il complotto, intascando così ben trentamila franchi per aver salvato la vita dell'imperatore. E poi ancora l'Affare Dreyfus con la persecuzione attuata nei confronti di un ufficiale ebreo, i giorni della Comune, l'attività di spionaggio al servizio dello Zar. Una vita fatta di travestimenti, di crimini, di mistificazioni, che trova compimento nella redazione da parte di Simonini, del suo capolavoro, il falso per eccellenza, l'opera a cui ha dedicato l'intera esistenza: una serie di documenti elaborati di suo pugno, revisionati all'occorrenza per i servizi segreti di tutta Europa, nei quali si riferiva dell'avvenuto incontro di dodici rabbini, capi delle dodici stirpi d'Israele, presso il cimitero di Praga che "Esisteva sin dal Medioevo, e nel corso dei secoli, siccome non poteva espandersi al di fuori del perimetro permesso, aveva sovrapposto le sue tombe, così da coprire forse centomila cadaveri, e le lapidi si infittivano l'una quasi contro l'altra, oscurate dalle fronde dei sambuchi senza nessun ritratto a ingentilirle perché i giudei hanno terrore delle immagini...". In quello spazio che "sembrava la bocca spalancata di una vecchia strega sdentata" era stato ordito il complotto giudaico per il sovvertimento di tutti i governi del pianeta. Non a caso il titolo del libro di Eco fa esplicito riferimento a quello di un capitolo del testo "Biarritz" di Hermann Goedsche, intitolato "Il cimitero di Praga e il Consiglio dei rappresentanti delle Dodici Tribù di Israele", nel quale si parla appunto del luogo in cui i rabbini di tutto il mondo si riunivano ogni cento anni, per elaborare e definire l'organizzazione della congiura giudaica per la conquista del potere assoluto. Il testo di Goedsche costituirà il nucleo fondamentale di quei manoscritti noti come "I protocolli dei Savi Anziani di Sion", il falso storico che Eco nel romanzo attribuisce a Simonini, fornendoci una chiave di lettura per comprendere la diffusione dell'antisemitismo. Non dimentichiamo infatti che i "Protocolli", furono largamente impiegati dalla propaganda nazista per giustificare il progetto di sterminio degli ebrei. Nel "Cimitero di Praga", Eco dunque si propone di esplorare le complesse dinamiche all'origine della manipolazione della verità e della fabbricazione del falso, indagine condotta attraverso la descrizione dell'esecrabile esistenza del protagonista del romanzo.
[...] La mia infanzia è stata mio nonno, più che mio padre e mia madre. Ho odiato mia madre, che se ne era andata senza avvertirmi, mio padre che non era stato capace di far nulla per impedirglielo, Dio perché aveva voluto quella cosa e il nonno perché gli pareva normale che Dio volesse cose così. Mio padre è sempre stato da qualche altra parte - a far l'Italia, diceva lui. Poi l'Italia lo ha sfatto.
Il nonno. Giovan Battista Simonini, già ufficiale dell'esercito sabaudo, mi sembra di ricordare che l'avesse abbandonato ai tempi dell'invasione napoleonica, arruolandosi sotto i Borboni di Firenze e poi, quando anche la Toscana era passata sotto controllo di una Bonaparte, era tornato a Torino, capitano a riposo, coltivando le proprie amarezze.
Naso bitorzoluto, quando mi teneva accanto a sé vedevo solo il naso. E sentivo sul volto i suoi spruzzi di saliva. Era quello che i francesi chiamavano un ci-devant, un nostalgico dell'Ancien Régime, che non si era rassegnato ai misfatti della Rivoluzione. Non aveva smesso le culottes - aveva ancora bei polpacci - chiuse sotto il ginocchio da una fibbia d'oro; e d'oro eran le fibbie delle sue scarpe di vernice. Panciotto, abito e cravatta neri gli davano un'aria un poco pretesca. Benché le regole dell'eleganza del tempo andato suggerissero di portare anche una parrucca incipriata, vi aveva rinunciato, perché di parrucche incipriate, diceva, si erano adornati anche mangiacristiani come Robespierre.
Non ho mai capito se fosse ricco, ma non si negava la buona cucina. Di mio nonno e della mia infanzia ricordo soprattutto la bagna caöda: in un recipiente di terracotta tenuto bollente su un fornello alimentato dalla brace, dove friggeva l'olio nutrito di acciughe, aglio e burro, s'intingevano i cardi (che prima erano stati lasciati a bagno in acqua fredda e succo di limone - per alcuni, ma non per il nonno, nel latte), peperoni crudi o arrostiti, foglie bianche di verza, topinambur, cavolfiore molto tenero - o (ma, come diceva il nonno, erano cose per i poveri) verdure lessate, cipolle, barbabietole, patate o carote. Mi piaceva mangiare, e il nonno si compiaceva a vedermi ingrassare (diceva con tenerezza) come un piccolo porcello.Aspergendomi di saliva, il nonno mi esponeva le sue massime: - La Rivoluzione, ragazzo mio, ci ha resi schiavi di uno stato ateo, più disuguali che prima e fratelli nemici, ciascuno Caino dell'altro. Non è bene essere troppo liberi, e non è neppure bene avere tutto il necessario. I nostri padri erano più poveri e più felici, perché rimanevano in contatto con la natura. Il mondo moderno ci ha dato il vapore, che ammorba le campagne, e i telai meccanici, che hanno tolto lavoro a tanti poveretti, e non producono più i tessuti di una volta. L'uomo, abbandonato a se stesso, è troppo cattivo per essere
(Umberto Eco, Il cimitero di Praga, Milano, Bompiani, 2010)
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La ricetta
Bagna cà uda (Salsa calda) Piatto tradizionale del Piemonte
Ingredienti (per 4 persone): 1 bicchiere di olio extravergine di oliva; 10 acciughe sotto sale (del tipo "Rosse di Spagna"); 8 spicchi d'aglio, 50 g di burro; Verdure miste a piacere. Crude: cardi (nella ricetta originale si tratta dei "Cardi Gobbi di Nizza Monferrato"), peperoni rossi, topinambur; cavolo verza, indivia belga, scarola, radicchio di Treviso, porri, cipollotti; Cotte: cavolfiori, cavoli, rape, carote, barbabietole rosse e patate lessati; cipolle passate al forno, peperoni arrostiti.
Preparazione: Pulite accuratamente gli spicchi d'aglio*, eliminando la pellicina esterna ed il germoglio interno e tagliateli a fettine sottili. Lavate le acciughe con acqua e vino per eliminare il sale, quindi dopo averle diliscate, fatele asciugare bene. Tagliate tutte le verdure (crude o sottoposte a cottura), a striscioline oppure a fettine; per quelle usate a crudo, è consigliabile immergerle in acqua e limone affinché non anneriscano. Mettete poi in un tegame di coccio l'aglio, copritelo con una parte dell'olio e il burro; fate cuocere a fuoco dolce per 10'-15', senza smettere mai di rimescolare con un cucchiaio di legno; il composto deve sobbollire ma non friggere. Quando l'aglio si è completamente disfatto ma non scurito, unite le acciughe ed il resto dell'olio: sono sufficienti pochi minuti per scioglierle e incorporarle nel composto che assumerà ora un tono marrone chiaro. A questo punto la salsa è pronta; servitela nei tradizionali recipienti di terracotta dotati di fornellino (fojòt) perché rimanga sempre calda. Portate in tavola le verdure, sia crude che cotte, che i commensali intingeranno nella bagna cà uda, accompagnandole a piacere con del pane casereccio.
* Nel Monferrato e nella vallata del Belbo, l'aglio prima di essere sottoposto a cottura viene messo a bagno nel latte freddo per due o tre ore allo scopo di addolcirlo e renderlo al tempo stesso più digeribile.
Per la ricetta riportata, un sentito ringraziamento all'eccellente maestra di cucina Anna Viotti.
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