Dettagliata cronistoria familiare ambientata nella provincia di Modena, fedelmente ricostruita attraverso lo sguardo attento ed arguto dello scrittore e giornalista Roberto Barbolini, Ricette di famiglia è un vero e proprio romanzo "enogastronomico", che ripercorre oltre un secolo di vita e costume italiani. L'autore fa del cibo il principale filo conduttore della narrazione, un flashback che ripercorre tutto il Novecento e giunge sino ai nostri giorni, intervallato da ricette, aneddoti e reminiscenze di usi e pratiche tradizionali, a cui si affianca e fa da contrappasso, la descrizione di preparazioni del tempo presente, in realtà poco più che "assaggi", permeati dagli influssi della cucina internazionale. Fra le pagine del racconto scorrono così fiumi di vino gustato in abbinamento con numerosi piatti a base di carne di maiale, il vero protagonista della cucina emiliana; si assaporano insaccati tipici, come ad esempio il cotechino, specialità modenese qui preparato "in galera" (ossia avvolto in una fetta di manzo o di vitello, ricoperto di prosciutto, quindi fatto rosolare in una casseruola con un battuto di cipolla, ed infine cotto nel brodo con l'aggiunta di vino rosso); si gustano piatti emblema del territorio e della tradizione, come gli gnocchi fritti, le crescentine o tigelle modenesi (focaccine, un tempo cotte tra due piastre di terracotta), o ancora prodotti che hanno ottenuto la prestigiosa "denominazione di origine protetta" quali il prosciutto modenese, il parmigiano reggiano o il prezioso aceto balsamico tradizionale di Modena. Il morbido ed elegante fluire del racconto scaturisce da un elemento chiave inserito da Barbolini nel romanzo: un vecchio ricettario redatto dalla madre, "un taccuino a forma di parallelepipedo di quindici centimetri per dieci, composto da 182 fogli a quadretti più alcuni sparsi", dove la stessa aveva annotato in bella calligrafia, come si usava una volta, le ricette predilette; nella maggior parte dei casi si trattava di preparazioni e di segreti culinari ascoltati "a viva voce" dalla sapiente nonna Armida, custode della tradizione gastronomica di famiglia. Il ricettario tuttavia si è notevolmente arricchito ed ampliato nel corso degli anni, grazie ai suggerimenti di parenti ed amici, e a qualche aggiunta, seppure sporadica, ricavata dal "Talismano della Felicità " di Ada Boni. Nel testo si parla dapprima dei piatti tradizionalmente consumati in famiglia, spesso con i parenti o durante particolari riunioni conviviali, quali feste e sagre paesane, una carrellata gastronomica che prende il via dal flan di cervella - la cui preparazione costituisce l'incipit del romanzo - passando attraverso i surà ch, le cotolette con la crema, la lepre arrosto, il polpettone, per approdare infine ai dolci dell'infanzia, come la torta di riso, il budino svedese, i crà fen e il delizioso "dolce che non conosco il nome". Sapori che ci restituiscono le atmosfere di un tempo antico, quello della civiltà contadina, in cui sono celate e custodite le nostre radici. Generazione dopo generazione si approda poi al presente, quello vissuto nella solitudine delle città , stravolte dall'inquinamento delle fabbriche e dal traffico delle auto, dall'invasione del cemento di costruzioni senza anima, dove il pasto è soltanto una pausa veloce consumata nei sushi bar, dove il cibo non si "mangia" più come una volta, ma si "spilucca" come avviene negli happy hour e nuove preparazioni esotiche, provenienti un po' da tutto il mondo, popolano ormai la tavola. Questa sorta di storia dell'alimentazione, scritta da Barbolini con leggerezza e sense of humour, è piacevolmente disseminata da mirabolanti personaggi dalla spiccata natura caricaturale, talora grottesca: c'è la madre perennemente stanca ed irritata dal pesante fardello della preparazione dei pasti, che impedisce però con ogni mezzo e a chiunque, di accostarsi ai fornelli; un padre dotato dell'olfatto di un pointer, capace di accorgersi in un battibaleno se la sfoglia delle tagliatelle è stata tagliata con un coltello di metallo anziché con uno di legno; c'è il "tragattino" capace di aggiustare qualsiasi cosa, appassionato d'opera e perdutamente innamorato; ci sono schiere di cugini e di zii tra i quali si annovera un appassionato cultore del ciclismo e ancora, c'è chi è partito per andare in India a vendere tigelle, oltre a un sedicente Mago Zurlì a cui non riesce proprio di spacciarsi per Cino Tortorella. Nella parte finale del testo si incontrano poi personaggi famosi come il giovane tenore Luciano Pavarotti, e c'è spazio anche per un'appassionata ricerca genealogica condotta dall'anziano Christopher Lee, vampiro dalle origini modenesi ... Un libro, quello di Barbolini, che racconta una provincia profondamente tenace nel restare fedele a se stessa e che invoglia il lettore a ritrovare il gusto del cibo condiviso e assaporato in famiglia.
[...] In tutti i rami della nostra famiglia il significato della parola «astemio» era noto, ma inapplicato. Bevevano i nostri padri e le nostre madri; i nonni e le nonne, bisavoli compresi; i cugini e le cugine; bevevano gli zii di Milano e i Gilibertì di Parigi; bevevano le nostre tate con i loro fidanzati vicini e lontani; e fin da piccoli bevevamo noi ragazzi, seppure pallido vino allungato. Una volta abbiamo dato del lambrusco a uno spinone che si chiamava Teli e dopo andava in giro ubriaco a leccare i muri di casa. Nessuno, però, beveva forte come un alpino. Così, quando abbiamo saputo che Enea sarebbe venuto nella nostra città per il raduno nazionale dell'arma, la mamma ha subito mandato il babbo a comprare delle grappe speciali, una col ginepro e l'altra con la pera dentro, che non s'è mai capito come fanno a infilarla nella bottiglia con quel collo così stretto. «Secondo me», è sbottato mio padre, «sono già ciucchi prima di partire: cosa ci vengono a fare in una città di pianura, invece che starsene sulle dentate e scintillanti vette?» [...] Con quegli occhi azzurri, l'aria distinta e il sorriso dolce di chi ne ha viste tante, senza perdere il suo sguardo affettuoso sulla vita, Enea a fare il soldato s'era guadagnato una medaglia d'argento che superava in valore militare, ma anche venale, quella di bronzo ottenuta dallo zio Eugenio nelle tempeste d'acciaio della Grande guerra. L'uomo che sedeva a tavola con noi era dunque un eroe, su questo non ci piove. Ma non aveva la faccia da alpino. Per me gli alpini erano dei piemontesi ruvidi in camicia di flanella: «Ben piantà , bel suldà »; oppure Veneti e trentini col naso rosso per le bevute, che portavano in testa un cappello di feltro grigioverde con la piuma d'aquila o una nera penna di corvo, con la nappina del battaglione. [...] Ma Enea sembrava fatto apposta per smentire gli stereotipi. Il suo fare garbato, la buona educazione tipo zii di Milano - uno stile che si stava perdendo - e poi l'evidente armonia con quella moglie quasi giovane, che rendeva invidiosa mia madre: tutto contribuiva a renderci inquieti durante il pranzo di benvenuto. Come piatto forte, la mamma aveva preparato uno dei suoi cavalli di battaglia. «Volète un polpetònee?» Quante volte sarebbe risuonato negli anni, con la calata larga delle nostre parti, il suo irresistibile richiamo sirenico; quante volte l'avremmo presa in giro, io e mia moglie, per quell'offerta rituale che mescolava ansia materna e volontà di potenza esercitata sullo stomaco del figlio primogenito tramite la Grande Tradizione Culinaria, di cui la nostra famiglia è sempre andata orgogliosa. Per difenderci, a un certo punto abbiamo cominciato a farle il verso: «Volete un polpetònee?». La giocavamo d'anticipo, neanche entrati in casa. Lei fingeva di stare allo scherzo, ma ci rimaneva male. Tanto che a un certo punto ha smesso del tutto di cucinarlo, peggio per noi.
Ecco la ricetta, ricostruita a memoria da mia moglie:
POLPETTONE
per 4 persone: 600 grammi di carne, suddivisi in 300 g di maiale, 200 di manzo e 100 di vitello, più un pezzettino di salsiccia. Nelle carni passate due volte al tritatutto s'aggiungono 2 uova, circa un etto di parmigiano grattugiato, sale, pepe. Lo si amalgama e con le mani lo si modella a polpettone, quindi lo si inserisce in una pentola poco più grande della sua misura, dove è stata imbiondita un po' di cipolla. Si fa rosolare lievemente il polpettone, si aggiunge mezzo bicchiere di vino rosso e lo si fa sfumare. A questo punto, s'inserisce un trito di verdure: carote, sedano, aglio e lo si tira lentamente con la conserva di pomodoro. Lo si lascia cuocere a fuoco lento per circa tre ore, rivoltando delicatamente il polpettone di tanto in tanto. Alla fine il sugo con le verdure, a piacere, può essere passato con il passatutto oppure lasciato a pezzetti.[...]
(Roberto Barbolini, Ricette di famiglia, Milano, Garzanti, 2011)