RIVISTA D'AREA DEI CASTELLI ROMANI

Biblioteca di Trimalcione

La vita ha più sapore con “Un filo d’olio”…

Da un’antica masseria dell’agrigentino ricordi e ricette della scrittrice Simonetta Agnello Hornby

Il racconto di un'infanzia magica e spensierata vissuta nella Sicilia degli anni Cinquanta, ma anche, al tempo stesso, una storia avvincente di sentimenti, relazioni familiari e di amicizia, tracciata attraverso il ritratto di una famiglia dell'aristocrazia siciliana, -"Un filo d'olio"-, ultimo romanzo della scrittrice Simonetta Agnello Hornby, è un po' di tutto questo, ma non solo. Tra le pagine del testo, zeppe di ricordi toccanti e gustosi aneddoti familiari, ritroviamo infatti la ritualità legata al cibo e alla sua preparazione, i sapori e gli aromi della cucina tradizionale, svelati attraverso le innumerevoli ricette sapientemente illustrate durante tutte le fasi di realizzazione. Con occhi di bambina, in una sorta di diario dal sapore dei tempi andati, la scrittrice ha fissato il ricordo delle lunghe estati trascorse in campagna, quando l'intero nucleo familiare del Barone Agnello, accompagnato dalla servitù, si spostava da Agrigento in contrada Mosè, la vasta proprietà terriera acquistata dal bisnonno nei primi anni dell'Ottocento, per costruirvi una casa per la villeggiatura accanto alla preesistente fattoria. L'origine dell'inconsueta denominazione biblica del possedimento, come si raccontava in famiglia, era da ricercarsi nel nome del primo proprietario, un'opera pia; Mosè, occupata dai tedeschi e gravemente danneggiata dai bombardamenti degli Alleati durante il secondo conflitto mondiale, dopo un periodo di abbandono era risorta a nuova vita, grazie ad una massiccia opera di ricostruzione ed ampliamento. La tenuta agricola annessa agli edifici, si estendeva per circa quarantacinque ettari, lavorati con diverse colture, in particolare mandorle, pistacchi ed olivi, oltre ad un fiorente allevamento di pecore, mucche e animali da cortile. Così nel periodo estivo trascorso a Mosè, i cibi solitamente consumati in città venivano totalmente banditi dalla tavola, lasciando il posto ai soli alimenti prodotti nella masseria. La grande cucina della nobile magione, era stata per anni regno incontrastato di nonna Maria, che vi confezionava ghiotti manicaretti, le cui ricette venivano pazientemente e diligentemente riportate su di un "quadernetto a righe verde chiaro, con le pagine numerate e corredato di indice proprio come un libro". La tradizione culinaria era poi proseguita attraverso le figlie Elena e Teresa, rispettivamente madre e zia della scrittrice, che nei torridi pomeriggi estivi trascorsi a Mosè, mentre la nonna e le cameriere riposavano, erano solite mettere mano a pentole e fornelli, dando prova della loro straordinaria abilità nel realizzare piatti succulenti, le cui ricette tuttavia, prima di passare alla fase di realizzazione, venivano scrupolosamente verificate sul taccuino di nonna Maria. Il testimone è passato infine attraverso Elena, alle figlie Simonetta e Chiara, che pur vivendo lontane hanno continuato a trascorrere le proprie estati a Mosè, cucinando insieme gli stessi piatti che avevano assaporato da bambine. "Un filo d'olio" è dunque la storia a cui Simonetta Agnello Hornby pensava da tempo senza decidersi a scriverla; ma spesso sono le storie stesse a prenderci per mano guidandoci nei meandri della nostra memoria: dai ricordi d'infanzia è nato così un romanzo autobiografico scritto insieme alla sorella Chiara ed al cugino Silvano. Alle ricette del libricino di nonna Maria si sono aggiunte quelle delle donne di Casa Agnello, unitamente agli aneddoti familiari, ai racconti, alle preparazioni culinarie di parenti, amici, domestici, contadini e mezzadri che hanno popolato e fatto vivere Mosè nella sua lunga esistenza. Vecchie foto in bianco e nero hanno completato l'album dei ricordi, arricchito da interessanti descrizioni inerenti i lavori stagionali eseguiti nella proprietà agricola: la mietitura del grano, la vendemmia, la raccolta delle mandorle, del cotone o quella delle olive da cui si ricavava un gustoso ed aromatico olio extra vergine, prodotto nella masseria ancora oggi. Il prezioso condimento, principe della dieta mediterranea, attraversa idealmente l'intero romanzo ed è il filo conduttore dell'appendice, redatta da Chiara Agnello e costituita da 28 ricette. Nella raccolta i piatti, quasi esclusivamente a base di frutta e verdure, sono distribuiti secondo l'andamento stagionale: dal mese di maggio fino a settembre. Si parte dal caffè di Rosalia ("Cafè d'u parrinu") a base di cannella, chiodi di garofano e cacao, dall'inebriante profumo speziato; si prosegue con la tuma all'argentiera, fette di formaggio (pecorino o caciocavallo freschi) fatte dorare nell'olio a cui si aggiungono aceto di vino bianco ed origano, per approdare infine ad appetitose ricette realizzate con zucchine (fritte con aglio, menta, zucchero e aceto, o unitamente a patate e cipolle, o ancora usate come condimento per la pasta), e melanzane, queste ultime cucinate nelle varianti: parmigiana "a modo nostro", caponata e cotoletta con pangrattato e uova. Il viaggio nella memoria "gastronomica" continua con la zucca fritta con la cipolla, i pomodori ripieni, i peperoni col pangrattato... Tra i dolci trionfano il tipico biancomangiare col latte di mandorla, la zuppa inglese, la crostata di frutta, il gelo di mellone, il budino di semolino con la cotognata, la gelatina di uva e melagrana, sapori seducenti che l'autrice invita a sperimentare realizzando le ricette di Casa Agnello, vanto e testimonianza di un passato sempre vivo*.
*Oggi Mosè continua la sua esistenza grazie all'alacre operato di Chiara Agnello, che ha provveduto al restauro degli edifici che componevano la proprietà; dal 1995 inoltre l'intero complesso, situato a pochi chilometri dalla Valle dei Templi di Agrigento, è stato trasformato in un apprezzato agriturismo dove vengono impiegati metodi di coltivazione biologica: "L'Azienda Agricola Fattoria Mosè".

[...] L'attività del cucinare non era altro che un proces­so chimico che trasformava l'aspetto e il gusto dei ci­bi: la polpa biancastra della melanzana una volta frit­ta diventava bronzea; dopo aver cotto a fuoco basso per un tempo che mi sembrava interminabile, la béchamel solidificava a vista d'occhio e bisognava girare la pa­letta sul fondo del paiolo descrivendo un otto, frene­ticamente, per evitare che si formassero grumi; lo zucchero appena inumidito, messo in un pentolino sul fuoco vivace, dapprima diventava una schiuma bian­castra e si rapprendeva, poi, quasi all'improvviso, si tra­mutava in un liquido caramellato color cognac (per po­co: se non lo si toglieva subito dal fuoco, il caramello, bruciato, sarebbe diventato nero e amarissimo). E poi gli odori: quello della noce moscata grattugiata sulla bé­chamel era opulento, quelli della maggiorana e del ti­mo aggiunti allo spezzatino, intensi e muschiati. Imparavo ogni giorno piccoli accorgimenti. Un filo d'o­lio era prezioso in qualsiasi frangente: «rinfrescava» i resti e le verdure cotte in anticipo, ancora tiepide, esal­tandone gli odori; faceva «rinvenire» lo sfincione da ri­scaldare; trasformava in squisite pizzette le fette di pa­ne raffermo bagnate in acqua e latte, coperte di pomodoro pelato, pezzetti di tuma e con un nonnulla di sa­le pepe e origano, e poi passate velocemente nel forno caldo. In quantità più abbondante, rendeva appetitose le patate bollite e sbucciate che si servivano a cena. [...] La cucina a Mosè non era soltanto il posto in cui si preparava da mangiare, ma anche la fucina dei lavori di conservazione dei prodotti estivi per l'inverno. Sul­la terrazza della cucina, esposta a sud, erano messi a seccare i pomodori, tagliati a metà e privati dei semi, e l'estratto di pomodoro. Accanto, ciascuna poggiata su una sedia e coperta da un velo di tulle, le ciotolone smaltate in cui le amarene sciroppate cuocevano al so­le. Il riposto era fresco e all'ombra; vi erano lasciati ad asciugare pomodori attaccati alla pianta e grappoli d'u­va, appesi ai ganci delle mensole più alte, come festo­ni. E poi si preparavano i concentrati come il «vino» cotto, ingrediente essenziale dei dolci di Natale e be­vanda per i malati; la cotognata nelle formette di ter­racotta smaltata; la frutta e gli ortaggi conservati in burnìe, sott'olio o sotto spirito; la salsa di pomodoro imbottigliata e poi bollita; le pesche sciroppate. Anche la conservazione della frutta da consumare richiedeva un costante lavoro manuale. Nella calura, pere, pe­sche, susine, azzeruole, uva e fichi si deterioravano ve­locemente se lasciati nei cesti: bisognava dunque toglie­re i frutti avvermati o in parte ammuffiti e disporli in un solo strato su vassoi di legno coperti da vecchie ten­de di tulle, al riparo dalle mosche e dal sole; poi toc­carli velocemente, uno per uno, per controllarne il gra­do di maturazione e togliere quelli che, ben maturi la mattina, nel frattempo erano diventati marci. La frut­ta bella matura si sceglieva per la tavola, quella molto matura per dolci e succhi, e quella sfatta per le galline.[...]

Dalle ricette di Chiara Agnello
Settembre

GELATINA DI UVA E MELAGRANA

Le gelatine - di arancia, mandarino, caffè ecc. - erano tra i dolci che si preparavano più spesso in casa nostra e ancora lo sono. A fine estate si facevano quelle di uva e di melagrana. La ricetta è sempre uguale, di qualunque frutto sia il succo. Tempo di preparazione (con il succo già pronto): 10 minuti.
Ingredienti per 6 persone: 1 litro di succo d'uva (bianca o rossa, non fa differenza); 3-5 cucchiai di zucchero (secondo la dolcezza della frutta); 20 g per litro di colla di pesce (salvo diverse indicazio­ni della specifica marca di colla di pesce); 200 g di panna montata poco zuccherata.

Ottenuto il succo, con la centrifuga o con uno spremiuva (a Mosè usiamo ancora quello della nostra infan­zia), metterlo in una ciotola e aggiungere lo zucchero necessario. Mescolare fin quando non si sia sciolto be­ne, assaggiare e aggiustare di zucchero. (Le nostre gelatine sono tutte un po' aspre perché vengono sempre accompagnate dalla panna montata zuccherata). Mettere in un pentolino i fogli di colla di pesce con un po' d'acqua e di succo d'uva e farli sciogliere com­pletamente a fuoco molto basso, muovendo sempre con un cucchiaio. A questo punto, con l'aiuto di un co­lino versare il tutto nel succo d'uva già zuccherato, me­scolare e trasferire nelle forme da capovolgere, oppu­re in coppette di vetro. Tenere la gelatina in frigorifero almeno tre ore pri­ma di servirla. In genere la si prepara la mattina per servirla la
Gelatina di melagrana
Stesse dosi e stessa procedura della gelatina d'uva. Per ottenere il succo (che si può anche surgelare), lo strumento ideale è la centrifuga. La dose di zucchero dipende dal tipo di melagrana che si ha, dolce o aspra: per quella aspra, anche da 7 a 10 cucchiai. Il colore rubino di questa gelatina è veramente ma­gnifico.

(Il brano riportato in corsivo è tratto da Simonetta Agnello Hornby, Un filo d'olio, con 28 ricette di Chiara Agnello, Palermo, Sellerio, 2011)